Se dovessimo immaginarci un Manifesto programmatico del cinema di Hugo Fregonese, uno dei punti principali sarebbe il seguente: il passato e la morte sono la stessa cosa – e da tale cospirazione non si può mai fuggire. Cineasta argentino adottato da Hollywood nel 1950 (sotto le ali produttive di Leonard Goldstein prima e Val Lewton poi), regista vagabondo e irrequieto non a caso sempre a suo agio nell’ibridazione dei generi, nel corso del suo intervallo statunitense Fregonese ha misurato il suo nichilismo con l’immaginario del West, dando vita a personaggi dannati che paiono essere liberi ma che in realtà si trovano sempre di fronte a due sole scelte: soccombere ad un destino già scritto (con una morte fisica) o negare il proprio passato per vestire dei panni sociali che paiono comodi ma che in realtà vestono stretti (con una morte quindi identitaria).
Se già con il suo noir argentino Apenas un delincuente (1949) aveva messo in chiaro che la corruzione del denaro è un fardello da cui si può solo venire schiacciati, con One Way Street (1950) il noir si apre a finestra su un West dello spirito – incarnato dall’idillio del Messico – trovando con James Mason il suo primo “fallito” e il primo esempio di travestimento sociale destinato a rivelare la sua fragilità. Mason è un medico di professione ma un criminale nello spirito, compie una truffa e un inganno ma trova una redenzione solo apparente che è, appunto, una strada già scritta.
Da qui in poi Fregonese, quasi seguisse un preciso itinerario linguistico, sconfina pienamente nel West portandosi dietro dal noir la sola voce narrante: Saddle Tramp (1950), ovvero “Il vagabondo”, nell’apparente sentimentalismo del film per famiglie racconta in realtà la storia di un errabondo (Joel McCrea) che sogna la wilderness e la California ma che, ancora per un fato stavolta incarnato da un cavallo imbizzarrito, si ritrova a dover fare il padre di famiglia di quattro bambini orfani trovando la sola stabilità possibile nella negazione di quell’epica avventurosa. L’espressione beata di McCrea, nell’abbracciare la moglie pura e angelicata, è come tradita da quei vestiti così puliti e ordinati che sembra proprio non gli appartengano.
Da personaggio scomodo ad eroe suo malgrado, in Apache Drums (1951) il cowboy solitario e senza radici (Stephen McNally) compie la sua apoteosi di corruzione dello spirito: senza passato e legami, l’eroe viene prima cacciato e condannato da una comunità nevrotica che vuole ripulirsi nell’aspetto (è uno scommettitore perdigiorno) e poi, affrontando la minaccia degli indiani Mescaleros per puro desiderio personalistico, si ritrova ad esserlo per le sole circostanze, accettando quella casualità per mera convenienza. Quello di McNally è un personaggio corrotto e amorale che tuttavia, proprio perché vuole sembrare un eroe alla fine riesce ad esserlo davvero. È tutta una mera questione di performatività e Fregonese ce lo dimostra nella sequenza mozzafiato all’interno della chiesa: toccando i confini dell’horror, gli indiani saltano dal buio delle finestre con l’intenzione di uccidere, colorati e mostruosi, annunciati dal fuoricampo tensivo e orrorifico dei tamburi apache che risuonano in una danza di morte. Per provare a salvarsi il sindaco si deve fingere medico e l’uomo amorale deve agire da eroe: il gioco per la vita è ancora quello dei ruoli, e una volta uscito dal luogo sacro il protagonista avrà compiuto la sua trasformazione apparente.
In un generico Sudamerica con Blowing Wild (1953) Fregonese torna a contaminare il western con il noir, raccontando la parabola dagli esiti melò stavolta di un protocapitalista, Jeff Dawson (Gary Cooper). Blowing Wild all’inizio sembra quasi Il tesoro della Sierra Madre (1948) di John Huston, salvo poi diramarsi in tutt’altro modo, seguendo stavolta il percorso di un uomo integerrimo, serio e dedito al lavoro (il petrolio, il capitale) che viene ossessionato da presenze del passato – una femme fatale tragica (non a caso Barbara Stanwyck) e un amico avido e codardo (Anthony Quinn). La minaccia dei banditi messicani sembra dover mettere Jeff alla prova e invece sono i personaggi attorno a lui che decidono, con le loro pulsioni egoistiche, come andranno a finire le cose. Con gli abiti sporchi Jeff trasporta un carico esplosivo per scampare dai banditi, con la camicia bianca si sporcherà completamente di petrolio e con i vestiti civili, chiari e ora puri, si affaccerà in stazione trasformato, mai nell’indole ma solo nell’aspetto.
Fregonese non potrà allora che insistere con una maestria sopraffina nel suo western più bello e complesso, The Raid (1954), sulla simbologia delle divise e delle bandiere per raccontare la crisi morale e patriottica di un maggiore Sudista durante la guerra civile americana. In questo western moralmente durissimo, crudo e quasi terroristico e che preannuncia a piccoli gesti gli esiti futuri de Il mucchio selvaggio (1969) di Peckinpah, l’eroe, il maggiore Neal Benton (Van Heflin) indossa un vero e proprio costume e si camuffa da imprenditore canadese per preparare dall’interno la distruzione di una cittadina yankee. L’obiettivo sarebbe di vendicare, con i suoi commilitoni, la distruzione nordista della sua terra: ancora per un colpo di destino tuttavia il protagonista pur agendo per sé si trasforma nell’eroe imprevisto della comunità. In questo mondo tutto sottosopra, il capitano nordista vuole comprare una bandiera rubata ai Confederati e farla sua per fingere anch’egli di essere un eroe: niente è come sembra, e anche quando Benton indossa finalmente la sua divisa è perfettamente consapevole di essere fedele a un mero ruolo.