Un regista, uno sceneggiatore e un attore discutono su quale possa essere il film giusto per raccontare la Germania del 1948. Una nazione, cioè, in ginocchio, dominata dalle macerie fisiche dei palazzi bombardati e non ancora ricostruiti, e da quelle psicologiche dei sensi di colpa e del trauma di un passato ancora fumante; una nazione che, formalmente, non esisteva e che cercava un percorso per la rinascita.
La sezione dedicata al cinema della Trizona ( appunto, la parte occidentale del paese che tra il 1945 e il 1949 era sotto il controllo statunitense, francese e inglese, e che sarebbe poi nel 1949 diventata la Repubblica Federale Tedesca ) dà in qualche modo l'idea che anche il cinema proponesse strade inedite, che fosse in qualche modo anche lui alla ricerca di un nuovo modo di essere, sperimentando forme e approcci e risultando quindi variegato, vitale e moderno.
Guardando certi film selezionati, sorge anche l'idea che questo cinema – tenendo ovviamente conto della varietà che racconteremo in questi giorni - non accogliesse e fotografasse passivamente la realtà cupa del paese e del limbo che stava attraversando, preferendo "aggredirla" e rielaborarla. Sono opere in cui il recentissimo passato e le sue eredità vengono affrontate in una maniera che è allo stesso tempo ( inevitabilmente ) evidente e tangenziale. Molti di questi, non sono, per intenderci, film tradizionalmente realisti, né palesemente di denuncia, perlomeno non di quella denuncia che affronta le questioni di petto. Preferiscono un approccio più sottile e problematico, costeggiando le questioni, dandole per scontate o usandole in maniera quasi strumentale per riflettere sulla natura del popolo tedesco e sugli elementi con cui questo poteva ripartire e rinascere; talvolta anche col sorriso sulle labbra.
Torniamo infatti ai tre protagonisti citati ad inizio articolo. Il loro dibattito continua sull'opportunità di realizzare una commedia; e se commedia deve essere, quale commedia può essere adatta per rappresentare la realtà cupa di fondo? Quale tematiche possono e devono essere affrontate e quali al contrario sarebbe meglio ignorare? Questa discussione, condita con battute quali "Dal Mar Nero al mercato nero" ( immaginando il titolo di un eventuale film d'avventura ), è l'inizio di Film Ohne Title di Rudolf Jugert (1948). I tre vengono poi interrotti dall'arrivo di una coppia amica del regista, composta da un distinto signore di mezza età e da una ragazza evidentemente più giovane e popolana. Incuriositi, lo sceneggiatore e l'attore chiedono al regista notizie su chi fossero e su come fosse nata la loro relazione, e i tre iniziano a "spettegolare" sulle vicende della coppia. Così, la storia del loro rapporto diventa il film e si trasforma nella commedia che i tre stavano cercando. Un amore che ha come tappe decisive i bombardamenti, il crollo della borghesia, la caduta del Reich e l'arrivo degli alleati e che viene raccontato con i toni della "commedia sofisticata". Aleggiano costantemente le ombre della tragedia, del dramma collettivo e del caos, ma il film non diventa mai davvero tragico; c'è talvolta malinconia, talvolta patetismo, ma dominante è la sensazione che si volesse esorcizzare, anche con le armi dell'ironia acida ( il dialogo sulla bomba inesplosa sul terrazzo dopo l'ennesimo bombardamento è esemplare, oltre che esilarante ), un contesto dato per scontato, che rimane il più possibile nel fuoricampo degli accenni e delle conseguenze e che sarebbe opportuno lasciarsi alle spalle.
La riflessione sulla situazione della nazione semmai, ed è qui l'aspetto più interessante e sottile di Film Ohne Title, nasce dalla natura totalmente "metacinematografica" dell'opera. Tutto quello che vediamo è in qualche modo una risposta ai quesiti dei tre uomini di cinema, le cui apparizioni costellano il flusso della narrazione, anche con momenti di gustosa e significativa ironia come la contrarietà dello sceneggiatore convinto che il lieto fine non possa essere realista e non fosse adatto a raccontare il paese. In qualche modo, per la sua esplicita natura metacinematografica che la toglie dal campo dell'ingenuità e la connota di questioni più vaste, la storia raccontata porta con sé una possibilità di rielaborazione e soprattutto esempi, facili e "di genere", per un popolo alla ricerca di una nuova identità e di una strada da seguire. Estremamente significativo è anche, del resto, il fatto che fosse una relazione capace di vincere le differenze di classe.
Berliner ballade (1949) di Robert A Stemmle è invece una commedia ironica ambientata tra le macerie di Berlino e con protagonista un reduce che torna nella capitale, rimanendo più spiazzato che sconvolto dalla situazione della città. L'ironia più diretta e cattiva convive con la comicità surreale e spiazzante che ha nei fratelli Marx il riferimento più immediato. La Berlino distrutta e divisa tra le quattro potenze, i primi accenni delle future divisioni della città e del paese, il mercato nero, la povertà diffusa e il disinteresse verso i reduci visti come fastidiose testimonianze del passato recente assumono le tonalità del paradosso, con il caos trasformato in un teatro dell'assurdo che la perennemente attonita espressione dell'attore protagonista Gert Frobe esalta e di cui le onnipresenti macerie, da quelle evidenti dei palazzi a quelle nascoste dell'interno degli appartamenti, diventano il palcoscenico ideale. Nel finale, che invece guarda a Chaplin, assistiamo ancora una volta ad un invito, che mantiene la giusta dose di distacco surrealista per non diventare moraleggiante, per il futuro più giusto e adeguato per il paese. Berliner Ballade è un film che prende di mira il presente, in cui il passato recente e i suoi aspetti più tragici al massimo vengono vagheggiati, ancora una volta quasi dati per scontati. Certamente riflettono chiaramente nelle macerie, ma l'approccio è quello di chi, anche nella cattiveria satirica, vuole lasciare tutto il più possibile alle spalle, sbeffeggiando il presente per suggerire un futuro. Protagonista di Berliner Ballade è il classico uomo qualunque.
Persone come tante possono apparire anche i protagonisti dei sette episodi di In jenen tagen (1947) di Helmut Käutner. Non ci troviamo questa volta di fronte ad una commedia, ma ad un mesto dramma collettivo che guarda alla rarefazione del realismo poetico francese. Il narratore è un'automobile che, al momento di essere smontata da due meccanici, riflette, rispondendo ai dubbi a riguardo dei due lavoratori, sulla natura umana e racconta gli esempi dei suoi sette proprietari. Dal 1933 al 1945 si susseguono storie di sacrifici, rinunce ed eroismi quotidiani. Sono comportamenti che nel loro piccolo cercavano di reagire alla furia del nazismo e che sono contestualizzati nei momenti chiave della crescita e della caduta del regime, dalla salita al potere alle leggi razziali, dagli attentati alla guerra fino alle migrazioni degli sfollati. Le parole "nazismo", "nazisti", "Hitler" non vengono mai pronunciate, sostuite da espressioni come "quelli là", "loro", "lui". È questo un dettaglio significativo di come Käutner si concentri totalmente sugli individui e lasci, come Jugert e Kautner, la realtà politica il più possibile nel fuoricampo. Le storie interessano innanzitutto gli aspetti più intimi e sentimentali dei personaggi. Le loro scelte di ribellione, rinuncia e sacrificio giocano in questo campo più che in quello strettamente politico. Il contesto semmai viene visto come una furia implacabile che pervade il soggetto fin nelle sue interiorità più nascoste, obbligandolo alla perdita di sé e a scelte che portano ad una più o meno disperata e netta sconfitta.
I personaggi di In jenen tagen sono modelli, esempi del lato più positivo del popolo tedesco; appaiono quindi, inevitabilmente, come vittime. È un film pervaso, a partire dai volti distrutti e gli sguardi lontani dei due meccanici circondati dalle rovine berlinesi, di mestizia, fatalismo e angoscia. All'inizio pare pure emergere un certo senso di colpa, ma ci troviamo di fronte ad un film che vuole ( anche ) offrire, attraverso episodi che assomigliano a parabole, modelli, che vuole esaltare la parte, sconfitta ma non domata, migliore del popolo tedesco. Ancora una volta, come nei due film precedenti, quindi ci sono, almeno suggeriti, l'invito e il modello per il futuro. Del resto, nessuno dei personaggi dei tre film pare essere stato davvero legato al nazismo. Sono personaggi, reduce compreso, che o ne hanno sofferto le conseguenze o sono diventati vittime, senza la minima ombra della partecipazione, della vicinanza e di un ruolo attivo. Simbolo questo, forse, di come il cinema tedesco non fosse ancora pronto a fare i conti con il sostegno più profondo e nascosto di cui il regime si è nutrito. Simbolo, indiretto, di un senso di colpa ancora da maturare davvero.