Una musica hawaiana, una donna che si lava i capelli, uno scontro tra anelito di fuga ed esperienza abitudinaria in cui s'insinua una voce femminile che con cadenza poetica verseggia d'un desiderio di reciprocità amorosa. La musica diventa una ballata, la fuga diventa d'amore, una donna si asciuga i capelli. Immagini e voci si alternano per qualche minuto, un montaggio di materiale informe che produce una sensazione d'insoddisfazione, rafforzando il desiderio di qualcosa di compiuto. Le donne che popolano il cinema di Elfi Mikesch sono delle sognatrici che vivono una realtà precaria.
Il sogno è musica, non solo hawaiana, è sinfonia visuale: anche il gesto di lavare il pavimento o i piatti attraverso il montaggio viene spezzato e trasformato in musica. Dal quotidiano scaturisce grazie all'immaginazione un'esperienza nuova, queer, uno sguardo diverso. I Often Think of Hawaii (1978) da documentario sul micro-cosmo di una famiglia povera diventa l'esplorazione delle fantasie di una giovane donna, infelice ma visionaria, che riesce a soddisfare parzialmente la sua brama di vita in sfilate d'abiti nello spazio chiuso della sua casa.
Tutto il cinema di Elfi Mikesch è fatto di spazi chiusi, che sia l'abitazione di I Often Think of Hawaii, l'ospizio di What Shall We Do Without Death (1980) o il treno di The Blue Distance (1983). Ma è il corpo femminile a essere lo spazio chiuso per eccellenza. I sogni delle donne rappresentate sorgono da un vuoto, da una solitudine, da una condizione di separatezza rispetto al mondo. Solo da qui si può generare l'immaginazione e la volontà di comunione, di condivisione, di rottura con la propria condizione materiale.
In What Shall We Do Without Death il distacco fisico degli anziani in un ospizio è coevo al loro distacco mentale espresso attraverso invenzioni grammaticali, frasi insensate, memorie che rispuntano dal nulla. È il passato il vuoto da cui si genera l'immaginazione. La loro quotidianità è fatta di fotografie, di libri sfogliati, di ricordi di vite che non sembrano più appartenergli, ma anche da un nuovo modo d'esprimersi, una nuova natura che sorprende lo spaesato spettatore.
Quella femminile è una soggettività scissa. In The Blue Distance nello stesso scompartimento del treno due donne sono in realtà la stessa, non si congiungono mai. La regia mostra solo il volto, l'incrociarsi dello sguardo. Il treno (come la metropolitana in Hawaii) è uno spazio di transizione per una destinazione che dovrebbe essere certa ma che né lo spettatore né la protagonista sembrano conoscere. Sono piuttosto destinati al sogno, alla finzione.
La voice-over proviene dalle “lettere immaginarie” di due amanti dell'artista Unica Zürn, mentre l'incubo dissociativo di una donna sembra giungere dall'immaginazione di Maya Deren. La dissociazione è del materiale stesso, audio e video sono indipendenti l'uno dall'altro, così come il forte contrasto di luci e ombre del bianco e nero. Eppure a volte, come lo sguardo della (doppia) protagonista, sembrano incrociarsi. Qualcosa affiora dalla detection: la potenza del cinema.