Quando in una sala cinematografica ci si trova ad assistere a immagini di paesaggi abbandonati osservati con la distanza di un antropologo e la creatività di un artista performativo, se ci si trova ad ascoltare lunghi silenzi e rumori ambientali, tempi lunghi che interpellano e richiedono allo spettatore un approccio più autonomo, esseri umani che si confondono a esseri animali, è molto probabile che si stia guardando un film di Michelangelo Frammartino. Allo stesso tempo però è anche molto probabile che si stia guardando un film contemporaneo. Eppure dal suo esordio sono passati già vent’anni e l’economia minima con cui questo era stato girato ne permette già ora la possibilità di un restauro.

A rivedere oggi Il dono sembra quasi di assistere ai primi passi di quello che è stato uno dei fenomeni (o delle avanguardie o delle tendenze, che dir si voglia) più segnanti del cinema italiano del nuovo millennio, di quella riscoperta dell’Italia, di quella rielaborazione dello sguardo documentario che si riconosceva (e in parte ancora oggi si riconosce) nel termine “cinema del reale”, quello delle pratiche documentarie più attente e consapevoli dell’immagine, quelle che sperimentano nuove strategie di autenticazione, in particolare attraverso una ricerca costante di nuovi intrecci tra la natura finzionale e quella documentale.

Le necessità verso cui sembra aver camminato questo cinema si rileggono negli stessi racconti del regista, quando sostiene che questo film fu per lui un ritorno al Sud dopo anni passati al Nord troppo vicino a troppe immagini (e già qui forse sta la consapevolezza di fondo di tutto il suo cinema, nella lucidità teorica), come una riscoperta dell’entroterra e della marginalità, uno spostamento verso nuove posizioni attraverso cui guardare l’Italia.

Un aneddoto vuole che Il dono arrivi anche come risposta a una delusione produttiva a Milano e come ricerca di semplicità (il regista racconta che se giri a Milano in pochi minuti arriva qualcuno che ti chiede il motivo per cui sei lì e se hai il permesso, mentre se giri in Calabria arriva un carabiniere che ti chiede se vuoi che vengano spostate le macchine per girare meglio). Arriva come un “dono”, come quello che fa il protagonista maschile (un anziano in procinto di diventare sempre più solo) alla protagonista femminile.

Quindi un ritorno al Sud, un’immersione nell’entroterra, una riscoperta personale (il protagonista del film è il nonno del regista), un tentativo di interrogare la vita dei luoghi, di dare forma al paesaggio. Il paese calabrese di Caulonia è assemblato cinematograficamente, nella sua verticalità, nella sua superficie, ma soprattutto nelle sue contraddizioni. Trasuda la memoria di qualcosa di antico accostato al ricordo di qualcosa di abbandonato. La Storia e il relitto sono a un punto di incontro vicinissimo. I campi sono disseminati di auto abbandonate, lasciate a decomporsi, e di navi arenate, quelle delle migrazioni, lasciate ad aspettare qualcuno: una mano che faccia ordine.

Proprio all’assenza della mano, Frammartino contrappone l’occhio e l’ordine lo impone con la macchina da presa. Ma non è un ordine “vertoviano”, piuttosto è la ricerca di un’armonia (molto alla Piavoli, soprattutto in questo film), nella consapevolezza del caos. Il dono è una strada indicata, una voce che, per quanto lieve e sottile, marginale e radicale, impopolare, nonostante tutto, vedendola oggi, non sembra sia stata del tutto inascoltata.