L’idea di partenza è un matrimonio che alla fine non si fa. Quello tra Berta Scacerni e Orbino Verginesi. L’unione tra una mugnaia e un contadino, tra il fiume e i campi, l’acqua e la terra. Poi il fuoco, che brucia il mulino. E, ancora, il progresso, che schiaccia i campi. Mentre “fischia il vento” di una lega dei contadini che tenta di stimolarne un «avvenire socialista» e di liberarne il lavoro, i purissimi sentimenti che legano i due giovani cercano si sopravvivere ad ogni disgrazia.

Esordiente negli anni Quaranta tra i registi di quel cinema cosiddetto “calligrafico”, alla luce di quelli che furono i successivi dibattiti sul realismo cinematografico, Alberto Lattuada con Il mulino del Po non tradisce quell’interesse originario incentrato sulla ricerca di un punto di incontro tra il desiderio di un’autonomia espressiva del cinema (attraverso il primato dell’apparato estetico) e, allo stesso tempo, un continuo dialogo con altre forme d’arte, in particolare la letteratura. Adatta così Mondo vecchio sempre nuovo, la terza e ultima parte di Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli; fonde l’affresco storico e sociale al melodramma, ribadendo il suo sogno di un matrimonio tra cinema e letteratura (la sceneggiatura, tra gli altri, è anche di Fellini e Comencini), guardando in continuazione anche al neorealismo.

Nel 1949 viene messa in scena questa epica di campagna alla luce del sole della bassa emiliana dove folle di contadini abitano il delta ferrarese del Po addomesticandolo e difendendolo dal “progresso”, dallo sviluppo e dallo sfruttamento economico, che schiaccia e cerca di appiattire una tradizione contadina che tenta estenuantemente di resistere nonostante le tasse sul macinato, la finanza e le pressioni governative. Un binomio tra tradizione e modernità ambientato durante la prima industrializzazione delle campagne italiane di fine '800, ma che guarda senza troppa fatica al dopoguerra italiano di quegli anni.

Un binomio che per i protagonisti diventa bivio: corda o non corda, pagare le tasse o non pagarle, lega o non lega, lavorare o scioperare, vecchia o nuova famiglia, costruirsi un futuro o mantenere fede alle proprie origini. Nonostante le violenze, le disonestà, le ire e le vendette, a farla da padrone sono i puri sentimenti dei protagonisti, anche quando, in questo caso, non portano al traguardo desiderato. Anche se in questo film sembra più arduo scovare l’ottimismo con cui Lattuada in quegli anni guardava alle speranze dell’Italia del dopoguerra, permane la fiducia nel voler costruire qualcosa, nel rielaborare un lutto, similarmente al neorealismo di quegli anni (non del tutto estraneo al regista).

A rimanere è il rapporto tra uomo e territorio, l’abitare il delta del Po, il difenderlo in quanto comunità che sa fare quadrato, in una delle scene più alte del film, nel momento in cui un gruppo di donne, a sciopero inoltrato, affronta i militari per rivendicare il proprio raccolto. Mentre una serie di primi piani si impone come affresco di un’Italia contadina profondamente ancorata alla terra, al lavoro e alla famiglia. Oggi ci viene restituita come un album di vecchie fotografie, volti di un vecchio mondo testimoniato dall’occhio imperterrito del Po, non solo natura ostile, ma anche luogo sacro di contatto con i morti e metafora di vita, del tempo che, per l’appunto, "è simile all’andare di un fiume".