Come ha ricordato Eddie Bertozzi (in uno speciale per Film Tv): “La storia del cinema cinese, come quella del suo paese, è un racconto in continuo mutamento, immerso nel flusso degli eventi epocali, delle trasformazioni politiche ed economiche, ricettivo dei cambiamenti sociali, culturali e tecnologici”. C’è sempre stato, quindi, un racconto politico, esplicito o implicito. Con I figli del Fiume giallo, per esempio, Jia Zanghke è riuscito a racchiudere diciassette anni di storia della Cina contemporanea, divisi in tre “epoche-capitoli” differenti, raccontando lo smarrimento di una generazione (quella di Zanghke) a fronte di trasformazioni e cambiamenti brutali. Non solo, con An Elephant Sitting Still, uno dei film cinesi più potenti degli ultimi anni, Hu Bo – regista esordiente, morto suicida all’età di 29 anni – dà voce alla disperazione e alla sconfitta di una nuova generazione, la sua. L’esistenza di una speranza (in quel caso, l’elefante) risulta ambigua, lontana, misteriosa e, quasi, irraggiungibile.
Questo senso di rarefazione ed emarginazione sociale ritorna come tema di sottofondo anche ne Il lago delle oche selvatiche, ultimo film di Diao Yi’nan, presentato a Cannes nel 2019. Storia di un gangster in fuga, aiutato da una prostituta, pure lei intenzionata, in qualche modo, a fuggire. Come nell’ultimo Zanghke - dove la piccola criminalità di provincia è l’ultimo baluardo di collettività, di legami e di senso dell’onore (forse di un patriarcato in declino) - anche questo film mantiene un racconto fatto di gruppi sociali (le bande di ladri di moto, il gruppo di prostitute, i poliziotti) contrapposti a dei singoli emarginati (i due protagonisti) e non (il capo della polizia). Eppure il cinema di Diao Yi’nan – che anche con l’esordio Uniform raccontava le differenze di classe nella provincia industriale cinese - non sembra camminare verso questa direzione. Un certo realismo sociale si fa più lieve, trasparente e mimetizzato, lasciando le tensioni come fondale di un cinema che lavora più con i generi e con uno stile estetico potente.
Neo-noir a tutti gli effetti, con i suoi archetipi, i toni cupi, i delitti, il sesso, le armi, il sangue, l’anonimato, gli inseguimenti… ma, soprattutto, gli ambienti. Immerso in una palude tanto naturale quanto cittadina, tra l’acqua stagnante del lago e quella che scorre dai muri fradici dei luoghi periferici e metropolitani. Dopo la città innevata e ghiacciata di Fuochi d’artificio in pieno giorno (Orso d’oro a Berlino nel 2014), arriva la paludosa provincia cinese, costantemente al centro dei campi lunghi del regista. Un discorso sui luoghi oscuri, importantissimi e, a volte, anche artificiali (qualche fondale dipinto, di città ricche e pulite, che copre le rive del lago).
Se il cinema di Jia Zanghke (con cui Yi’nan ha uno storico sodalizio artistico), in questi anni, ha avuto la maturità e la forza di imporsi con un’opera che è insieme forma e sostanza, Diao Yan sembra, invece, rimanere affascinato e in contemplazione di una forma strepitosa e di uno stile imponente. Tra eleganti piani sequenza di sguardi e montaggi serrati di lotta. Luci al neon estetizzanti sfruttate nella loro astrattezza per raccontare mondi artificiali. Sequenze corali coreografate alla perfezione, giochi di ombre e silhouette elegantissime.
Il lago delle oche selvatiche – pur rischiando di cadere talvolta nel manierismo - è la vittoria dello stile su tutto che, parafrasando il regista, “è la migliore arma contro la mediocrità e la decadenza”.