Dietro ogni commedia si nasconde una tragedia, e ogni tragedia implica una mancata corrispondenza tra desiderio e aspettative: questa è la grande consapevolezza che porta a compimento Joker di Todd Phillips, che con una chiarezza cristallina sposta continuamente il discorso ai limiti dei generi, dimostrando che la vera grande partita – quella della verità, e non della realtà – si gioca esclusivamente sul terreno della percezione.

In una Gotham City oscura e violenta vicinissima al realismo della New York di Taxi Driver, qui ricoperta da montagne di rifiuti, l’aspirante comedian Arthur Fleck si prende cura della madre malata lavorando per una agenzia di clown. La derisione e la rabbia o l’opposta indifferenza altrui a cui è soggetto non aiutano di certo la sua condizione, determinata quasi totalmente dalla sua malattia mentale che,manifestandosi platealmente in attacchi di riso soffocanti e dolorosi, non fa che aumentare la distanza tra lui e gli altri e alimentare una percezione distorta della sua persona.

Questo scarto percettivo innesta così la situazione tragica: Joker è una personaggio comico perso in un mondo che non gli appartiene, commedia pura in un mondo che non lo è, e questa è la sua condanna. Come se lui solo rispondesse alle logiche di deformazione della realtà tipiche del genere, le conseguenze delle sue azioni risultano ancora più violente o patetiche venendo a scontrarsi con quel mondo così diverso, che letteralmente non sta al gioco, facendo così crollare il patto di veridicità e svelando il lato tragico della commedia.

E cos’è un personaggio comico senza un pubblico? Perché far ridere, se nessuno sta guardando? Una volta realizzata questa verità, Joker allora capisce il senso stesso della sua esistenza: “ora mi vedono”, quindi esisto, dice alla sua psicoterapeuta. Gettata la maschera di plastica nel cestino dei rifiuti, ora Joker non è più solo un emarginato ma è l’emarginato della slapstick, padrone della sua maschera comica che ora è tutt’uno con la sua identità: proprio alla maniera di Charlot, che difatti osserva incantato in una sala cinematografica, studiando le reazioni del pubblico e arrivando alla consapevolezza che ridono con lui, e non di lui.

“Pensavo che la mia vita fosse una tragedia, ma mi accorgo solo ora che è una commedia”: questa frase già iconica racchiude allora perfettamente il senso del film, il cui livello di complessità è innalzato da una ulteriore variabile di articolazione del senso: la televisione. È infatti solo attraverso lo schermo televisivo che può avvenire la più totale sublimazione e affermazione del personaggio, che se nelle premesse esiste soltanto quando percepito dagli altri, non può fare a meno di usare il luogo principe dell’articolazione del discorso di verità come trampolino di lancio per la sua nuova identità. Consapevole di sé e riconosciuto dagli altri, Joker è ora completo e può finalmente emanciparsi da ogni necessità percettiva, saturo già com’è di significati e implicazioni politiche, finalmente inseparabili dal suo sé a prescindere dal medium o dal discorso.

In questo modo Todd Phillips, che si era detto deciso ad allontanarsi dalla commedia perché seccato da una “woke culture” troppo politically correct, che non permetteva l’irriverenza invece tipica della sua produzione precedente, rientra in commedia dalla porta sul retro, analizzandola anzi da punti di vista inediti. Ed è infatti come se la guardasse dal lato opposto a quello della meraviglia, opposto alla sospensione dell’incredulità, dal dietro le quinte, e svelasse il trucco dietro la magia: portando lo spettatore a capire che una gag comica, nel mondo reale, può fare molto male.