Tutto ciò che Il meglio deve ancora venire rappresenta in termini di discorso filmico e pratica testuale viene direttamente dalla negoziazione rigorosa col suo prototipo, o meglio ancora dalla consapevolezza di esserne la formula. Se Quasi amici ha avuto un impatto a prova di immaginario sull’industria culturale francese, avendo rielaborato a sua volta le connotazioni del buddy e del road movie, il modello che ha proposto non ha mai cessato di produrre surrogati.
Due persone che si scoprono unite al di là delle incompatibilità caratteriali, che poi si respingono e riconciliano, che a seconda della propria indole offrono ai problemi della vita una risata o una lacrima, che vedono nell’affetto per l’altro la sola possibilità di riscatto; questa drammaturgia ormai collaudata, che è insieme lascito e prassi, tradizione e strategia, che Quasi amici di certo non ha inventato ma che senz’altro ha rinnovato, non è soltanto il punto di partenza per il film della coppia Delaporte/La Patellière ma ne è il significato assoluto. Le dinamiche della strana coppia protagonista, alle prese con l’elaborazione e l’accettazione di una malattia terminale, sono riprodotte così fedelmente rispetto all’esemplare cinematografico di riferimento, sono così oneste nei confronti dell’archetipo e così ciniche col genere, che il concetto stesso di “variazione sul tema” alla base di questa tipologia di film (che ci sembra di aver visto un centinaio di volte ma che pure non ci stanchiamo mai di ammirare) viene accettato in quanto prodotto commerciale e accolto in quanto oggetto artisticamente qualificato.
È netta la differenza, per esempio, con il parente più prossimo ad un’opera come Il meglio deve ancora venire: l’indie americano da festival. Un tipo di cinema, quello agrodolce sulla scorta di Little Miss Sunshine o Lady Bird, che postula l’anticonformismo e pratica il suo opposto, che in sostanza promuove il valore della marginalità ma che poi non riesce ad essere così radicale da mantenerne intatta l’unicità. Si tratta dunque di una proposta cinematografica brillante e spesso divertente, ma in definitiva falsificata nell’esito e manipolatoria nelle intenzioni, mentre nel caso della dramedy francese l’approccio anti-sistema non è riservato ai personaggi quanto alla loro visione del mondo e, nello specifico, della malattia.
Arthur è un ricercatore universitario triste e permaloso, in tensione costante di fronte a qualsiasi situazione, Cèsar è un esuberante spiantato che vive ogni giorno come se fosse l’ultimo tra relazioni occasionali e soddisfazioni usa e getta: due solitudini assolutamente convenzionali, un’amicizia semplice e autentica che tuttavia scova le ragioni della propria eccezionalità nel modo in cui affronta il trauma della malattia. Come faceva Quasi amici con la disabilità o Samba con l’immigrazione, e sulla falsariga del più cattivo 50 e 50, Il meglio deve ancora venire lavora con i mezzi della commedia per risolvere il dramma, limitando lo humor ad un territorio di confine oltre il quale la materia ironica è disinnescata e i rituali del cinema drammatico sono rispettati.
È la vittoria, allora, di un cinema meticciato ma del tutto standard, che cioè prende da tanti miti e tradizioni per poi esaurirsi in un genere perfettamente configurato. E se l’equivoco da cui parte la girandola di eventi è l’unico elemento spurio, troppo isolato nel racconto e troppo artificiale per non ridursi a mera forzatura narrativa, la scrittura di Alexandre de la Patellière e Matthieu Delaporte è tanto schietta verso le nostre aspettative, tanto coerente nell’intenzione di replicare i meccanismi di una storia che abbiamo già sentito ma che in fondo ha sempre qualcosa da dirci, che il film guarda alla sua essenza di pura formula come a un motivo, forse davvero l’unico possibile, per assicurare un senso di verità.