Quando incontriamo per la prima volta Dog, abbarbicato nel suo appartamento superaccessoriato – un mare di colori, nonostante la solitudine e l’oscurità, ugualmente avvolgenti a tarda sera – quasi a vegliare su di lui c’è la maschera di un personaggio caro al comico Pierre Étaix. Parzialmente illuminato dal televisore ancora acceso, il poster di Yoyo – sagace e malinconico omaggio al cinema muto, nonché opera d’un autore non doverosamente valorizzato in attività, al pari del suo mentore Jacques Tati – constata l’ennesima partita persa a Pong, rivolgendo un triste sorriso al soggiorno.

Poco dopo, preparatasi la cena, Dog nota dall’altra parte della strada, in un altro appartamento, una coppia, assorta nella visione di un altro film. Coccole. Sguardi reciproci. L’affiatamento tra chi si conosce da diverse vite precedenti. A questo punto, l’accenno al cinema muto è più che necessario. Ed è bene specificare che Dog non diverrà la tragica figura, desiderosa di rivalsa, incarnata da Lon Chaney nel capolavoro di Victor Sjöström L’uomo che prende gli schiaffi, evocato peraltro nel finale di Yoyo. Anzi, forse per magia, forse per premiare la sua nobiltà d’animo, sarà lo stesso televisore, rimasto acceso, a offrirgli una nuova opportunità. Telefonando all’apposito numero di servizio, è possibile acquistare un robot in grado di colmare il vuoto di chi si ritrovi senza amici a cui aprirsi, o senza qualcuno da amare.

Candidato al Premio Oscar e tratto dalla graphic novel di Sara Varon – il titolo originale, Robot Dreams, fa riferimento a una svolta narrativa ben precisa – Il mio amico robot è la quarta pellicola dello spagnolo Pablo Berger, la seconda priva di dialoghi dopo Blancanieves, la prima animata. Una sfida non indifferente. Tuttavia, Berger dimostra di saper padroneggiare la materia, scoprendo un punto di incontro quasi miracoloso tra le possibilità stilistiche dell’animazione e la tenera intimità al centro della vicenda raccontata.

Come Blancanieves (una rielaborazione, arricchita dagli intertitoli, della novella dei fratelli Grimm in cui Biancaneve è una famosa torera nell’Andalusia degli anni Venti), anche Il mio amico robot è un film, prima di tutto, coraggioso. La storia universale di un’amicizia, nella New York pre-11 settembre, destinata al pubblico dell’infanzia e della prima adolescenza, ma impreziosita da decise virate verso tematiche adulte e riflessioni sui rapporti interpersonali nell’odierna contemporaneità, orchestrata con la purezza dell’artista versatile e curioso di esplorare un nuovo territorio.

Con il medesimo candore Robot si addentra nel mondo, ispirando Dog, circondato dalla sua confortante presenza, a diventare una creatura migliore, a recuperare, oltre che i rollerblade per ballare insieme al suo compagno d’avventure sulle note di September degli Earth, Wind & Fire, l’intraprendenza perduta col forzato isolamento. Se la struttura della prima parte assomiglia non poco a un unico appuntamento – tra gite in barca, fototessere, Il Mago di Oz in TV, la spiaggia di Coney Island –, più avanti, quando, senza preavviso, i due protagonisti saranno costretti a separarsi, il film imbocca consapevolmente un’ulteriore direzione. Innescando una serie di episodi, il susseguirsi delle stagioni rappresenta un veicolo foriero di esperienze.

Mentre l’amicizia sopravvivrà grazie ai “sogni” coltivati da Robot – a tal proposito, si cita la perizia di una determinata sequenza onirica, in grado di restituire, a ritmo di flamenco, la bellezza delle coreografie di Busby Berkeley, fornendo un contesto alla nostalgia, anziché crogiolarvisi –, nel frattempo costretto all’immobilità. Eppure, animato dalla sempreverde, ingenua fiducia nel futuro, dal leitmotiv in September e dall’inaspettata capacità di ispirare nel più piccolo fringuello di una dolcissima nidiata la forza indispensabile per spiccare il volo.

Robot, antidisneyano per costituzione, si rivelerà una sorta di commovente eroe, costantemente aperto al cambiamento, mentre Dog, a sua volta cambiato, il felice, infine, spettatore della crescita e maturazione dell’anima gentile che gli ha cambiato la vita. Giustapponendo primi piani e campi lunghi – utilizzati per delineare la temporanea condizione esistenziale dell’uno o dell’altro –, omaggi e prese di posizione inequivoche – il dettaglio della bandiera ucraina sulla cinepresa di un runner, imbattutosi nei due protagonisti, ballerini sui pattini a Central Park – Il mio amico robot è un prodotto ammirevole.

Beninteso, non un’indagine, come anticipato, sull’intelligenza artificiale, seguendo l’esempio di Her (Spike Jonze, 2013), o di Klara e il sole del Premio Nobel Kazuo Ishiguro. Bensì una riuscitissima meditazione sulla solitudine, nella quale sia l’ironia sia la melanconia si amalgamano giocosamente, nonché sull’importanza dei legami, vecchi e nuovi. Non solo sul timore di perdere, un giorno come tanti, un’amicizia consolidata, speciale. Sul desiderio di rimanere al fianco del proprio o della propria mate, qualunque cosa accada, contribuendo alla formazione di un rifugio in cui ospitare il motore di una vicendevole serenità. Ma anche (ed è qui la scomoda verità) sull’eventualità atroce di doversi dire addio, di proseguire abbandonando strada facendo alcuni affetti. Preservando la felicità nel ricordo, l’appagamento nella musica e nella danza.