In due scene di memorabile immediatezza, Miguelín, affermato novillero – torero principiante – in attesa di essere insignito del titolo di matador de toros durante la cosiddetta cerimonia dell’Alternativa, compie un breve ritorno alle origini, nell’umile campagna che lo ha visto crescere con consuetudinaria indifferenza da parte di una comunità uguale ad avi quasi dimenticati, prima, scappare, salutato dalla sola madre, poi, una volta divenuto adulto, seppure indurito dalla vita, animato da una ambizione contemporaneamente aggressiva e impulsiva.

In un’atmosfera idilliaca, dei contadini alle sue dipendenze, nell’assenza di cicale che riprendano stridule la melodia della stagione propizia, come sentinelle nascoste allo sguardo del signore, lavorano senza esitazione il campo color del miele. Subito dopo, Miguelín, nel fremito elementare di un’arena tutta per sé, qualche ora prima di ritrovare il solito odore di morte, ripassa la lezione, prefigurando le mosse dell’avversario e passando in rassegna le proprie certezze nell’aria.

Quasi danza, affilando ulteriormente l’iniziale curiosità dello squattrinato un tempo capitato ai piedi di Pedrucho, il suo maestro, trasformandola a ogni movimento nell’inamovibile ossessione d’un eroe. Senonché, l’eroe, sprovvisto delle nobili sentenze che gli avrebbero dato lustro in un poema, utile solo a ingrossare feste e cortei, all’improvviso, nel lasciare il teatro della sua imprevista fortuna e della sua imminente caduta, ha un cuore rintronato in petto, mani e faccia madide di sudore. Se ne vede l’ombra, ma l’intera figura si riscopre atterrita da un pensiero, a malapena soffocato. La terra non trema. Eppure, il futuro è terminato.

"Pensavo, da tempo, a un film su un cantante costruito dall’industria del disco. E incontrai un torero... Che cosa ne sapevo io di tori e di toreri? Cercavo, dunque, un’idea per un film che mi aveva chiesto Angelo Rizzoli. Una mattina apro un rotocalco e vi trovo un servizio fotografico sulla Feria di Pamplona. Da quando avevo letto Morte nel pomeriggio quel mondo mi affascinava. Pensai anche che Ernest Hemingway, prima di andare in Spagna, sapeva niente di tauromachia. Ci provo pure io, mi dissi. Parto da un torero, un personaggio che, tutto sommato, rappresenta il suo paese. Mi recai da Rizzoli: «Voglio raccontare di un ragazzo che diventa torero». E il vecchio: «Provaci»" [1].

Prendendo in prestito il titolo dell’esordio di Francesco Rosi, si potrebbe affermare che Il momento della verità – forse, il maggiore film sull’argomento insieme a Torero di Carlos Velo, documentario candidato al Premio Oscar nella seconda metà degli anni Cinquanta incentrato sul matador Luis Procuna, soprannominato nell’ambiente El Berrendito de San Juan – è una sfida, sia autoimposta che indirizzata agli spettatori presso cui si era fatto conoscere con Salvatore Giuliano e Le mani sulla città.

Difatti, trascorsi i primissimi secondi di pellicola, soltanto osservando le monumentali macchine processionali, sulle quali campeggiano statue di santi, costruite a misura di millimetro per uscire dalla porta di una chiesa che gorgoglia e borbotta tra le luci crude e le crude ombre generate simultaneamente da una coltre fitta di candele all’imbrunire, di splendenti e imperscrutabili effigi religiose e del trapestio dei capirotes – copricapi indossati dagli abitanti di Siviglia nel corso della Settimana Santa –, si avverte un gusto della prova, della sfida da affrontare con spavalderia: da una parte, l’abilità di portatori in grado di uscire dalla chiesa senza danni, pur non vedendo nulla, sebbene tutti coordinati dall’esterno; dall’altra, la bravura, nonostante la pericolosità della sua missione, del torero, capace di sgombrare la mente e di ripulire gli arti da una tensione invisibilmente ondeggiante, di attenuare per un momento ronzii e conversazioni, pronti a trasformarsi in urla e applausi.

Dell’eredità di Francesco Rosi, audace autore del quale ricorre proprio in questo mese il centenario della nascita, si è già ampiamente dibattuto in altre sedi. Qui, vorremmo ricordarlo attraverso uno dei suoi film meno conosciuti. Imperfetto, certamente, non esente da una velata tendenza al calligrafismo, a detta di diversi critici dell’epoca, in determinati passaggi, eppure incredibilmente moderno, Il momento della verità, una storia in bilico tra finzione e documentario, interessata in primis all’ascesa, in secondo luogo alla successiva declassazione di un torero da istituzione da acclamare pedissequamente a semplice oggetto ornamentale, stupisce, se non per gli avvenimenti selezionati per raccontare tale parabola, per una capacità di raccontare la realtà con precisione cronachistica soprattutto nella prima parte di pellicola.

Nella seconda, più introspettiva, scopre tra le pieghe degli affamati sorrisi e delle irrevocabili aspettative del pubblico madrileno – che nulla ha in comune con la gioia palpabile presente nei volti testimoni dell’apertura dei giochi olimpici in Giappone, mostrata da Kon Ichikawa in Tokyo Olimpiad, uscito nello stesso anno –, gli ingranaggi di un’operazione in grado di fagocitare sia il toro, vittima discreta di una cerimonia che sarebbe inutile interrompere, che il suo carnefice.

Compiendo un’operazione simile, per certi versi, alle trasferte di altri suoi illustri colleghi – Jean Renoir (Il fiume), Sergej Ejzenštejn (Que viva Mexico!), per proporre due esempi –, Francesco Rosi, dotato dell’occhio vigile dell’etnologo, accompagna il suo Miguelín, arrivato in città in cerca di un impiego, nei locali in cui confrontarsi con i suoi compagni di sventura – una scena che ricorda non poco l’inizio della sua opera seconda, I magliari, in cui il Mario Balducci interpretato da Renato Salvatori, anch’egli uno straniero, guardato di sbieco sulla base dell’aspetto dai camerieri del ristorante in cui incontrerà il Totonno di Alberto Sordi, non tarda a sbottare, lamentando l’impossibilità di trovare un lavoro con cui giustificare la sua partenza.

E si fa strada insieme a lui nella prima camera in cui dormirà al suo arrivo – una pensioncina in cui la divisione dei posti letto in minuscoli cubicoli “anticipa” quelli adibiti a inframezzare gli uffici della burocrazia in Play Time di Jacques Tati, da una parte, rammentando la gelida illuminazione di stanze utilizzate per i prigionieri rastrellati dal regime descritto in Il quinto sigillo di Zoltán Fábri, che sarebbe arrivato undici anni più tardi, dall’altra parte –, nella mensa in cui il suo protagonista racconterà ad altri, saggiando anche, dal punto di vista visivo, la condizione di una bestia ammassata alle altre, la propria situazione economica.

Si inoltra nelle gocce di un drink con cui tentare di consolarsi, nel sorriso di una sconosciuta arrivata per caso, nella rapacità degli impresari interessati alla logica del profitto. Il tutto, senza mai snaturare gli elementi di partenza da cui è partito, tratti che gli hanno permesso di costruire una filmografia estremamente innovativa, profondamente politica e personale, potente come la denuncia sa essere nell’inseguire la menzogna, con l’impegno rigoroso che anima un artista. S’intende, un vero artista.

[1] Rosi in F. Bolzoni, I film di Francesco Rosi, Gremese Editore, Roma, 1986, p. 31.