Nel pomeriggio di venerdì 2 marzo, nell’ambito del Festival Visioni Italiane, si è svolta una tavola rotonda, coordinata da Gian Luca Farinelli ed Emiliano Morreale dal titolo “Il Pubblico Fantasma”: un’occasione di confronto tra autori, registi, critici, distributori ed esercenti per riflettere sullo stato attuale del cinema italiano e sulle criticità nel rapporto tra la sala e il pubblico di spettatori. La nostra è una produzione che sta sorprendendo per l’estrema varietà dei generi – basti pensare a musical come Ammore e malavita o a film d’animazione come Gatta Cenerentola – e per la grande qualità degli esordi, tuttavia questi prodotti non ricevono l’attenzione che meritano, né dal pubblico, né dalla critica.

“L’Italia è un paese statico, mentre l’arte cinematografica in quanto tale è in continua evoluzione”, spiega Gian Luca Farinelli in apertura, “per questo può capitare che non riesca a stare al passo con la produzione di quel momento. Spesso esercenti, autori e critici non dialogano ed è per questo che si genera questo divario. Questo incontro in un festival piccolo come Visioni Italiane nasce proprio come occasione per dialogare e per riflettere tutti insieme”. Il direttore della Cineteca sottolinea l’attività del Cinema Lumière per celebrare alcuni di questi film con la rassegna “I(n)soliti Ignoti – Nuovi protagonisti del cinema italiano”, che per sette settimane ogni domenica mattina ha proiettato opere prime e seconde: una scommessa vincente che ha registrato un enorme successo a livello di pubblico.

L’incontro comincia dall’intervento quasi provocatorio di Valerio De Paolis, fondatore di BiM distribuzione, che definisce il pubblico simile agli “amanti dei cruciverba”, bisognoso di definizioni e di caselle nere per delimitare le scelte possibili che invece la critica non apporta più e soprattutto rimprovera i film italiani di non guardare allo spettatore: “Quando mai gli esordi sono delle commedie? Due film che mi vengono in mente sono Smetto quando voglio e Notte prima degli esami, che infatti hanno avuto un enorme successo, mentre oggi molte opere prime sono drammi sociali, che non fanno presa sul pubblico”. Per lui è anche importante il ruolo delle sale cinematografiche che devono essere capaci di fare un lavoro sul territorio e di portare avanti un discorso con i film che programmano, in modo da conquistare la fiducia del pubblico.

La parola passa ai registi e agli autori, categorie chiamate direttamente in causa dalle parole di De Paolis, e sono chiamati a intervenire tre grandi voci della nuova generazione: Susanna Nicchiarelli (regista di Cosmonauta e Nico, 1988), Alessandro Rak (regista insieme a Ivan Cappiello, Marino Guarnieri, Dario Sansone di Gatta Cenerentola) e Francesca Manieri (sceneggiatrice di Veloce come il vento di Matteo Rovere, di Figlia mia di Laura Bispuri e della saga di Smetto quando voglio di Sydney Sibilia).

Alessandro Rak inizia parlando del suo rapporto “non con il cinema, ma con le persone”: “Tengo al confronto con la mia squadra [il riferimento è alla MAD Entertainment, studio di animazione napoletano, ormai tra i più importanti di tutta Europa, n.d.r.] e con le persone che puntualmente passano a trovarci”. Sottolinea soprattutto che per poter discutere più serenamente sullo stato del cinema bisognerebbe abbandonare i discorsi salvifici: “Il cinema non è da salvare, siamo già messi bene così come siamo. Ciò che possiamo fare è cercare di divertirci di più”. Spiega anche che il cinema per lui è basato sulla voglia e la passione e che i registi esordienti come lui devono cercare di trasformare quelli che sembrano ostacoli in stimoli. Per lui un film può trovare pubblico solo se ha qualcosa di interessante da dire.

Susanna Nicchiarelli ha potuto testimoniare in prima persona l’evoluzione del cinema italiano in quanto ha visto come è cambiato l’atteggiamento dei produttori nei confronti di Nico, 1988: “Quando nel 2009 ho presentato questo progetto ai produttori, sembrava quasi impossibile la sua realizzazione, sia per i diritti delle musiche ma anche perché volevo girare in diversi paesi”. Difatti il progetto della regista, risultato vincitore della sezione Orizzonti come miglior film alla 74° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ha un forte respiro europeo e forse il suo successo risiede proprio in questo. Un elemento di fondamentale importanza è non farsi incastrare dall’idea di fare un film per un determinato spettatore: “Il film deve essere un prototipo e io devo restare fedele all’originalità della mia idea”.

Francesca Manieri sente al contrario una forte responsabilità nella riuscita del film: “Se non ho in mente chi c’è dall’altra parte non faccio un buon servizio. Sento molto il peso dell’entità dello spettatore”. Per cercare di ricostruire una rete di rapporti, cerca di lavorare soprattutto con registi della sua generazione. Tuttavia per lei per arrivare a dei significativi cambiamenti il cinema italiano dovrebbe smettere di essere un artigianato e diventare un’industria, rafforzando soprattutto l’apparato produttivo. Uno degli esempi da lei citati è proprio quello della saga di Smetto quando voglio, un film di intrattenimento, diventato una trilogia per la forte volontà del regista: un progetto che cerca il pubblico e che sa di poter attirare. Quando gli incassi non premiano i progetti meritevoli, dovrebbe intervenire l’industria per sostenerlo, perché potrebbe aprire delle porte per un cinema italiano migliore. Secondo lei, però, il problema è anche della critica, che dimostra un’ottusità verso i prodotti della nostra terra, “per poi svegliarsi solo quando arriva Guadagnino”.

Proprio da questo spunto inizia la seconda parte dell’incontro, dedicata ai critici, che vede intervenire Paolo Mereghetti, Roy Menarini e Marianna Cappi. Mereghetti inizia la sua riflessione, concentrandosi sul “caso Guadagnino”, spiegando che all’origine del suo successo vi è una sapiente strategia di marketing, capace di costruire attesa intorno al prodotto: un interesse sopraggiunto anche perché “si tratta di un film degno di nota, al contrario dei suoi precedenti”. Piuttosto, secondo il celebre critico del Corriere della Sera dovremmo riflettere sul perché un progetto presentato alla Quinzaine des réalisateurs del Festival di Cannes attragga di più rispetto a quanto proposto dalle Settimane degli autori a Venezia. “Molti dei film che abbiamo menzionato finora sono stati affossati dalla distribuzione, il pubblico non sa quasi che questi film stanno uscendo”, aggiunge per poi lanciare un’ultima provocazione: “È compito del regista guardare allo spettatore o forse del distributore di trovare il pubblico?”

Secondo Roy Menarini, il vero problema è che al giorno d’oggi i punti di riferimento critici sono quasi scomparsi, fatta eccezione di Paolo Mereghetti: “Sotto figure come la sua vi è una completa frammentazione. Di ogni film che esce esistono centinaia di recensioni. Quello che però la critica deve riuscire a fare è ritagliarsi uno spazio e soprattutto capire questo pubblico che sta cambiando molto rapidamente”. Riconosce l’offerta straordinariamente varia del cinema degli ultimi anni, ma “non si possono più pretendere i dibattiti sui film in prima pagina, bisogna accontentarsi di tante piccole isole”.

Marianna Cappi ricorda che anche il neorealismo, da tutti definito come l’epoca d’oro del cinema italiano, non è stato in grado di raccogliere il consenso del pubblico. La sua riflessione si sofferma soprattutto su un commento che ha letto sui social riguardante le nomination ai David di Donatello: “Tutti i cinque film candidati sono ottimi, ma non li ha visti nessuno”. Uno dei maggiori problemi dell’industria è la sua estrema saturazione: “Escono talmente tanti prodotti che si crea una sorta di effetto imbuto. Le medie si riducono perché questi film rimangono poco in sala”. Di sicuro la critica ha qui un ruolo di basilare importanza: grazie agli approfondimenti e alle recensioni, si crea una memoria storica di quel prodotto. Spera soprattutto che la loro professione possa aiutare a creare un varco per collegare il pubblico ai tanti film che meritano attenzione.

Gli ultimi a intervenire sono i produttori, tra cui troviamo Angelo Barbagallo e Marta Donzelli, e gli esercenti, Thomas Bertacche e Michele Crocchiola. Marta Donzelli spiega che nell’ultimo anno con Vivo Film, casa di produzione da lei fondata insieme a Gregorio Paonessa, ha seguito tre importanti film: Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli, I figli della notte di Andrea De Sica e Figlia mia di Laura Bispuri. “Una delle sfide più complesse è stato trovare un distributore per questi prodotti e spesso è arrivato dopo questi film avevano già vinto dei premi. Ciò logicamente non permette un lavoro congiunto con i distributori. I film americani incassano così tanto perché il loro percorso distributivo è delineato fin dall’inizio. Nella realtà italiana possiamo fare affidamento solo sulle sale che lavorano costruendo un rapporto di fiducia con il pubblico”, conclude la produttrice romana.

Secondo Angelo Barbagallo, che lavora nel settore da ormai da quarant’anni, “viviamo in un periodo molto strano”. Una realtà che spesso molti distributori in Italia non considerano è quella delle piattaforme digitali, molto usate soprattutto dal pubblico giovane per fruire di film e serie tv, che potrebbero rappresentare un importante sbocco per molti progetti. Anche lui sottolinea la difficoltà nel trovare un distributore per i prodotti non mainstream.

Thomas Bertacche, coordinatore del Far East Film Festival di Udine, amministratore della casa di produzione e distribuzione Tucker Film e curatore della programmazione del Cinema Visionario, spiega che non è il pubblico a essere cattivo, buono o da educare, “sono i film che devono essere fatti in modo diverso. Se vuoi raggiungere un pubblico, devi fare un prodotto in grado di attirarlo”. Alcuni film nascono consci di non poter raggiungere un grande pubblico, ma altri possono essere delle vere sorprese, come ad esempio Easy - Un viaggio facile facile di Andrea Magnani. Quello del produttore deve essere un lavoro attento rivolto alla qualità e non al tornaconto economico.

Secondo Michele Crocchiola del Cinema Stensen di Firenze questa incomprensione tra pubblico e cinema non è un problema solo italiano, ma europeo. Per quanto riguardare la sua esperienza come gestore di un cinema, ci spiega: “I programmatori purtroppo devono sottostare a contratti che limitano la vita del film. Noi dello Stensen attuiamo una multiprogrammazione verticale e orizzontale, cambiando gli orari di programmazione di giorno per cercare di capire quando un film funziona meglio. Per questo le sale sono di massima importanza, devono riuscire a formare un pubblico”

Un pubblico fantasma, una distribuzione quasi impossibile, ma tanta voglia di realizzare, di esplorare nuovi generi da parte degli autori e di scommettere su nuove promesse e progetti particolari da parte dei distributori: questo è il cinema italiano oggi.