Sono trascorsi quindici anni dall'omicidio della prima martire della rivolta iraniana: Neda, studentessa di filosofia, la cui morte violenta, catturata da un telefonino e divulgata online, scatenò una serie di proteste popolari che avrebbero in seguito alimentato il Movimento Verde. Una di queste Neda appare anche nel nuovo film di Rasoulof: avvolta da un lenzuolo irrompe nella casa del suo carnefice; grondante di sangue, il suo splendido volto tumefatto, ricoperto di pallettoni.

Le figlie del carnefice, una a una, estraggono i proiettili dalla sua pelle. Con questo gesto fin troppo reale, che scorre in un unico, ininterrotto piano sequenza, Rasoulof fa germogliare cinematograficamente da questo paesaggio devastato i semi di una rivoluzione già in atto.

Il seme del fico sacro tratteggia un passaggio epocale: la penetrazione di queste immagini negli spazi del potere grazie alle nuove generazioni iper-connesse, profondamente colpite dall'atrocità della violenza e sempre più insofferenti nei confronti di una spudorata propaganda televisiva che distorce la realtà. Il film stesso integra nel suo tessuto narrativo le immagini di rivolta non tanto per validare la finzione, ma per elevarsi alla loro altezza spirituale, per assumere la stessa funzione di arma della resistenza al regime.

In questo modo, attraverso la fluidità di queste immagini che filtrano dappertutto, che prolungano il gesto rivoluzionario, si fluidifica lo stesso film che non può più semplicemente contenere le consuete figure retoriche del cinema iraniano: burocrazia, potere, sorveglianza, prigione, famiglia. La pervasività della rivoluzione impone, dalla parte del potere, un irrigidimento, espresso nel film nella riproposizione di queste figure, ma comporta anche un profondo spaesamento nei momenti di implosione del controllo.

Nel film, il controllo è simbolizzato dalla figura della pistola. Iman, nuovo procuratore presso la Corte di Teheran, deve vivere in segretezza, rinchiuso in un quartiere tranquillo insieme alla sua famiglia. Chiamato ad esprimere quotidianamente un verdetto sui rivoltosi, gli viene affidato un'arma per la propria protezione.

Qui non ci sono volti logori di un potere decrepito: le alte autorità sono piuttosto presentate come dei cartonati, mentre logori sono i volti martoriati dei rivoltosi. Iman ha invece un volto pulito: prima di tutto, si lava delle proprie responsabilità, mediocre funzionario di un regime che mai metterà in discussione tanto per fede teologica quanto per attaccamento alla carriera.

Con l'incedere dei moti, sostenuti, nella sua totale ignoranza, anche dalle sue figlie, Iman diventa sempre più rigido, finché la sua pistola non scompare, conducendolo a uno stato di assoluta angoscia. La macchina da prese gira a vuoto in uno spazio chiuso, ora fuori dal suo dominio. All'improvviso, il sorvegliante si tramuta in sorvegliato: la sua reputazione è a rischio e, con essa, la segretezza.

Esposta la sua ubicazione tramite il web, sceglie la fuga insieme alla famiglia per rinchiuderla in una nuova prigione: la sua casa natale. Ma anche lì è braccato dalle immagini che cercano di catturare le sue violente reazioni e infine viene circondato dalla sua propria voce, dai suoi canti religiosi, amplificati fino a trasformarsi in un'arma.

Nello straordinario epilogo, cacciatore e preda si inseguono, scambiandosi i ruoli. Entrambi, armati di pistole, queste figure imparentate reclamano il potere, lottano per la successione dell'Iran. Tra le labirintiche rovine di un paese desertificato, figure tanto familiari quanto parricide emergono da ogni angolo, rivelando la pervasività di una rivoluzione pronta a seppellire l'antico mondo patriarcale.