In un film collettivo i registi sono come calciatori, il loro compito è passarsi la palla a vicenda finché il tema principale del progetto non viene sviscerato e affrontato attraverso i tanti e diversi punti di vista. E se il gioco di squadra è buono allora l’armonia dei segmenti riuscirà a formare un unico grande mosaico, e la partita è vinta. Questo è ciò che accade ne I ponti di Sarajevo (in programma al cinema Lumière), dove tredici registi posizionano la capitale della Bosnia ed Erzegovina al centro delle loro tredici storie. In occasione del centenario dall’inizio della Prima Guerra Mondiale, la pellicola si propone come un rincorrersi di pensieri che vanno dall’attentato del 1914 all’arciduca austriaco Francesco Ferdinando e consorte (miccia che fece scoppiare il conflitto mondiale), passando per la guerra in Bosnia ed Erzegovina svoltasi dal 1992 al 1995, fino ad arrivare ai giorni nostri.

È un’opera sul significato e l’importanza della memoria. I primi corti tentano di immaginare il passato ed immergervisi dentro riportandolo in vita attraverso il racconto storico (La mia dolce notte di Kamen Kalev, L’avamposto di Leonardo Di Costanzo), o con letture di scritti e testimonianze di quelli che furono i suoi protagonisti (Il testamento delle nostre ombre di Vladimir Perisic, Gavrilo Princip, ultime lettere di Angela Schanelec). Poi subentrano altre tipologie di linguaggio, come la descrizione di una quotidianità che in qualche modo si porta appresso vecchi attriti sociali (Vigilia di Cristi Puiu), volti che sfumano su squarci di Sarajevo ponendo l’attenzione sul rapporto tra la città e i suoi abitanti, presenti e passati (Riflessioni di Sergei Loznitsa), e voci fuori campo accompagnate da immagini di repertorio che utilizzano la storia della città come sineddoche del mondo per porre una riflessione tra cultura e arte, viste come regola ed eccezione (Il ponte dei sospiri di Jean-Luc Godard).

Ma I ponti di Sarajevo fa molto di più. Successivamente vediamo figli che ricordano le parole dei padri riguardo la guerra degli anni Novanta (Il viaggio di Zan di Marc Recha), testimonianze corali che rimembrano la Sarajevo di allora e la confrontano con quella di oggi (Album di guerra di Aida Begic), e drammi di persone che nel presente trasmettono la disperazione legata alla fuga da quella tragedia tanti anni prima (Il ponte di Vincenzo Marra). Come suggeriscono le transizioni animate di François Schuiten e Luis Da Matta Almeida, l’obiettivo è creare un ponte tra presente e passato, in modo che la città possa avere un futuro. Non è un caso infatti che gli ultimi segmenti siano dedicati ai bambini. Forse essi devono veder bruciare un po’ del male accaduto per avere la mente sgombra da pregiudizi e permettere una rinascita (Sara e sua madre di Teresa Villaverde). Ecco infatti che vediamo Sarajevo raccontata attraverso gli occhi di chi vive serenamente, portando con sé il ricordo dei genitori e amando la propria città, forse ingenuamente inconsapevole di cosa essa ha dovuto passare (Little boy di Isild Le Besco). Ed infine l’immagine di un bambino che gioca spregiudicatamente con gli amici nei pressi di un cimitero fino a camminarvi dentro per recuperare un pallone (Taci Mujo di Ursula Meier), è la sintesi perfetta di una pellicola con uno scopo portato avanti con passione e toccante speranza.

I ponti di Sarajevo è un’opera che cerca la formazione di una coscienza popolare e nazionale in ogni microstoria che racconta, guardando sempre le due facce di una stessa medaglia, dall’arciduca assassinato agli anarchici attentatori, dagli anziani disillusi ai bambini pieni di vita, dai genitori che sognano un futuro diverso ai loro figli che se lo prendono. Un film collettivo sul bisogno di collettività.