Un facoltoso e cinico regista di mezz’età si innamora di una giovane: figlia della donna di cui molto tempo prima era innamorato. Madeleine, che proviene dalle campagne non conosce la vita di città e i suoi pericoli. Così Émile (Maurice Chevalier), sostituendosi inconsciamente alla figura paterna della giovane, la accoglie sia in casa sua, sia sul suo set, coinvolgendola come attrice nelle riprese di alcuni suoi film.

La delicatezza registica di René Clair si mostra, in Il silenzio è d’oro, attraverso quel voyeurismo che vede la macchina da presa muoversi, in quel finto spazio per le riprese, alla ricerca dei suoi personaggi, della loro storia e della sua stessa storia. Spia i suoi protagonisti attraverso finestre che, proponendo una certa immagine, fanno intendere, senza eccessivi dialoghi, i loro pensieri. Clair sfrutta a suo vantaggio anche l’accompagnamento musicale, creando un fil rouge che vede legare al tema, di un musicista di strada, le diverse vicende che coinvolgono i tre personaggi.

Clair crea un ritratto encomiastico, velato da alcuni aspetti malinconici, di quella che è stata l’invenzione del suo secolo: il cinematografo. Mostra così, fin dall’inizio di Il silenzio è d’oro, le figure cardine del mondo del cinema sia quelle appartenenti ai decenni del muto - dall’imbonitore, all’accompagnamento sonoro e anche vocale, fino a “dettagli” come la luce naturale - sia quelle che, nel corso della Storia, si sono modificate: dall’operatore al regista (come responsabile che fa da “grande capo” a tutti), fino alla figura del produttore. Il produttore, che Clair sardonicamente mette in scena, è un uomo capace solo di lamentarsi, ma che sul set non ha alcun potere. Il cinema dopotutto è un’industria, ma quello che Clair vuole sottolineare - e che ancora oggi ha valore indiscutibile - è che al comando di quell’industria non c’è né il produttore, né il regista, e non ci sono neanche gli operatori di scena: il vero “capo” è il pubblico (passato, presente e futuro).

Clair mostra una Parigi decisamente idealizzata, ricreando il sogno che è la sostanza di cui è fatto il cinema. Sfrutta le sue vie, i tetti, la sua luna, le sue logore fiere e i suoi cenciosi abitanti per restituire un canovaccio intriso di cliché francesi, che derivano direttamente dagli anni Trenta, ma non solo, infatti quella che propone è anche l’immagine di un popolo che davanti alla miseria non si abbatte. Come quando dal buco nel tetto della baracca, al cui interno è proiettato un film, inizia a gocciolare acqua su uno spettatore e questo, senza porsi troppi problemi, apre l’ombrello e continua a guardare lo schermo: fattore che peraltro gli permette di tentare un’approccio con la sua vicina di panca.

René Clair ironicamente esprime una città perennemente eccitata ed eccitabile, sia per i personaggi femminili, sia - e soprattutto - per quelli maschili. Infatti Émile, il giovane e inesperto cicisbeo Jacques, il signor Duperrier, e le altre innumerevoli comparse maschili non fanno altro che inseguire, letteralmente, ogni singola gonna che incontrano sul loro cammino.