L’impossibilità di giungere alla verità, la genealogia della colpa e l’incombenza del capitale: è in queste tre direzioni che Il terzo omicidio (2017), legal-thriller di Hirokazu Kore’eda, problematizza una trama apparentemente lineare, guidata da un semplice interrogativo: perché l’operaio di fabbrica Misumi ha ucciso il suo datore di lavoro?
La linearità degli eventi si rivela infatti, in poco tempo, illusoria: tra le continue ritrattazioni sull’accaduto di Misumi, il suo avvocato difensore Shigemori cerca invano di districarsi tra omissioni e misteri familiari passati, annaspando alla ricerca della verità. Ma il vero dramma di Shigemori non è dato tanto dalla fatica ad arrivare alla realtà dei fatti, quanto dalla consapevolezza che verità e giustizia sono due percorsi che corrono su binari paralleli, percorribili fino in fondo solo se posti in contraddizione. Chi decide chi deve essere giudicato? La razionalizzazione della realtà in sentenze ordinate è una necessità o un desiderio indotto? E se è indotto, quanto è indotto dal capitale?
Tutti questi interrogativi rimangono insoluti, enunciati verbalmente dai personaggi (che si pongono ossessivamente domande per tutto il film, senza mai darsi risposte) e formalmente dal linguaggio visivo, compatto e coerente nella sua tensione verso l’ordine. Ponendo sempre lo sguardo a favore sia dei corpi che degli spazi in cui questi sono inseriti, bloccati su riprese a camera fissa alternate soltanto da movimenti di macchina impercettibili, Kore’eda sembra infatti suggerire che la razionalità può essere solo una questione di superficie, ovvero di linguaggio (parlato e visivo) come ri-formulazione di altro. Una verità irraggiungibile se non intesa, altrimenti, come verità interiore, del singolo: questa è infatti l’unica a cui si può aspirare.
Allineandosi al corpus dei suoi film più recenti, che inquadrano il nucleo familiare all’interno di un disagio sociale più ampio – soprattutto in Ritratto di famiglia con tempesta (2016) e Un affare di famiglia (2018), e non solo per il titolo – Il terzo omicidio sembra voler paragonare l’incombenza dei legami parentali a un fardello da cui non ci si può liberare, soprattutto nella misura in cui l’albero genealogico si fa portatore di una colpa. E, come spesso accade nei film di Kore’eda, la colpa è del padre – figura assente ma determinante nel causare isterie e disagi dei personaggi che ne subiscono le azioni passate. Tuttavia, qui la paternità di Misumi, dell’avvocato Shigemori e del padrone della fabbrica brutalmente ucciso è solo un comune denominatore che non porta a compimento il discorso, accennato e basta, sull’espiazione delle colpe del padre.
Una problematizzazione continua, quindi, senza un punto di arrivo, che accenna anche alla responsabilità del capitale, nella misura in cui, viene palesato dagli stessi personaggi, la giustizia è corrotta dall’ "economia processuale" ed è meglio dire la verità in carcere che mentire per il bene della fabbrica. Al di là della risoluzione più o meno riuscita di queste tematiche all’interno del film, può essere invece stimolante vedere come, osservando a distanza alcune opere di autori del cinema orientale contemporaneo (appunto Kore’eda, insieme a Bong-Joon ho e Lee Chang-dong, e sotto certi aspetti anche Park Chan-wook), si stia manifestando sempre di più il desiderio di denunciare le contraddizioni del capitale e di ragionare sul sentimento di classe e le sue responsabilità, attraverso film come Parasite (2019), Burning (2018), Mademoseille (2016) e in generale gli ultimi film di Kore’eda che trovano riscontro della loro necessarietà nel panorama cinematografico attuale non tanto nei favori critici e nei premi, ma negli anomali numeri di affluenza in sala, sintomo forse di una rinnovata volontà di politicizzazione dell’audiovisivo.