In un quartiere di periferia del nord della Francia vivono Bertrand, Marie e Christine. Sono tre vicini di casa in cerca di una soluzione ai loro problemi. Bertrand deve far scomparire un video da Facebook, Marie deve impedire che un giovane la ricatti con un video hard e Christine deve trovare un modo per aumentare la sua media voti come autista privata, bloccata a una stella su cinque.

Imprevisti digitali, ultimo film della coppia Benoît Delépine e Gustave Kervern, Orso d’argento speciale all’ultima Berlinale, è una commedia sui problemi digitali, contemporanei, aberranti, vissuti da personaggi di certo non digitali (in apertura Marie si gratta la schiena contro un albero come farebbe solo un orso), o meglio personaggi che riescono a seguire l’evoluzione digitale, la rincorrono e forse la raggiungono anche, ma che si trovano alla fine sciupati, rovinati, distrutti. Non sono stupidi ma instupiditi. Non sanno interfacciarsi con le post-verità da social, dimenticano le password, non riconoscono le truffe online. Atteggiamenti tanto comuni quanto assurdi, che alimentano una delle intenzioni comiche di questo film, ovvero quella di raccontare vicende totalmente credibili attraverso un registro in continuo bilico tra grottesco e realistico.

Ovviamente, lo capiscono presto anche i protagonisti: i loro problemi dipendono da quei tre schermi (“specchi”) neri. Allora, dalla rotonda che un tempo occupavano come gilet gialli, i tre decidono di sabotare le grandi banche dati del mondo. Con maschere, per evitare il riconoscimento facciale, come faceva la protagonista di La donna elettrica (altra sabotatrice del cinema contemporaneo) anche se in quel caso si trattava di difesa mentre qui si tratta di attacco: i protagonisti non hanno più nulla da salvaguardare.

Come nel loro primo film Aaltra, Delépine e Kervern costruiscono Imprevisti digitali come un allontanamento da un luogo di origine. Si parte da un quartiere residenziale (grande protagonista del cinema recente nella rappresentazione di piccoli microcosmi simbolici, vedi Non ci sarà mai più la neve o Favolacce) che qui non è teatro degli eventi ma luogo di partenza per un viaggio che consiste nell’allargare lo sguardo geografico mettendone in crisi la retorica globalista.

Giorgio Avezzù nel libro L’evidenza del mondo afferma che il cinema in questi ultimi anni ha diegetizzato la crisi della ragione cartografica, spesso in forma di imbarazzo geografico, di incapacità di conoscenza e controllo del mondo. In Imprevisti digitali, i protagonisti ripropongono questa incapacità nei loro viaggi, nel partire senza sapere nulla dell’altro, nel non poter comunicare, nell’essere convinti che l’altro sia in un punto del mondo dove, alla fine dei conti, non è.

L’impossibilità di rappresentazione totale (non solo geografica) del globo – che, per esempio, in un film come Babel veniva nascosta e deviata nel racconto di una condizione umana universale, dove ogni essere vivente nel mondo era collegato da un gesto o da un oggetto - si riduce alla frammentazione di una condizione individuale spesso riproposta nella tendenza continua al monologo dei protagonisti. Se si pensa che il battesimo simbolico di questa retorica è avvenuto con le prime foto spaziali dell’intero globo (tra cui quella scattata dalla luna, intitolata “alba terreste”), il “tramonto terreste” finale non può che esserne l’evidenza di un fallimento. Mentre una porta con scritto “insieme, lasciamo una traccia” ribadisce una coscienza planetaria che, forse, non è riuscita nel suo intento. E solo attraverso uno spago o una conchiglia, secondo Delépine e Kervern, sembra si possa tornare a comunicare veramente.