È sempre stato difficilmente inquadrabile Roberto Capanna: personalità polivalente, multiforme, misteriosa anche per chi gli era più vicino dal punto di vista professionale o familiare. Ci ha lasciati senza far rumore, lo scorso 30 maggio.

Classe 1939, Capanna fu – tra le altre cose – uno sperimentatore, un inesauribile ricercatore delle possibilità espressive dell’audiovisivo. Membro fondatore della Cooperativa del Cinema Indipendente, collettivo costituitosi a Napoli nel 1967 e poi allargatosi all’area romana fino ad annoverare tra i suoi aderenti e sostenitori una serie di artisti e intellettuali come Alberto Grifi, Massimo Bacigalupo, Giorgio Turi, Paolo Bertetto, Mario Schifano e Claudio Cintoli, Capanna fu dedito a un’esplorazione radicale della linguistica cinematografica all’interno del cosiddetto “cinema sperimentale”.

Questa passione lo portò a realizzare – oltre a prodotti più codificati a livello di genere come il documentario Il fachiro – “oggetti audiovisivi” di natura indefinibile, opere di critica sostanziale alle istituzioni e al linguaggio cinematografico tradizionale, rielaborazioni formali di un approccio alla settima arte che rimanda esteticamente alle più note sperimentazioni dei cineasti sovietici degli anni venti, ma suscita anche assonanze a più largo spettro con le avanguardie in generale per il suo suggerire un diverso significato delle immagini in conseguenza alla loro interazione nel montaggio.

Il suo destino professionale lo condusse nei decenni successivi ad abbandonare la sperimentazione underground per dedicarsi a lavori più istituzionali in un contesto forse formalmente più rigido come la televisione: dagli anni settanta fu al servizio della RAI con documentari-inchieste a tematica sociale come Mani Pulite: cronache di un’inchiesta e la rubrica Sapere, ideazione di programmi, nonché regie televisive di spettacoli teatrali (Variazioni enigmatiche, da Eric-Emmanuel Schmitt con Glauco Mauri), opere (L’italiana in Algeri, Madama Butterfly) e concerti, in cui si poteva sempre notare la profonda conoscenza della partitura e l’attenzione alle capacità dialogiche dell’immagine rispetto alla musica.

Troppe, per essere qui elencate, le trasmissioni teatrali, musicali, culturali che ha curato e che hanno visto la partecipazione delle più varie personalità del mondo della cultura, da Mirella Freni a Carla Fracci, da Uto Ughi a Gianrico Tedeschi: ci limitiamo a citare Il Teatro in Italia, panoramica sulla storia del teatro italiano con Dario Fo e Giorgio Albertazzi, e la sua lunga e appassionata partecipazione al Premio Tenco, Festival della canzone d’autore dal 1976 al 2000.

Senza dimenticare che dal 1967 al 1970 è stato aiuto-regista e sceneggiatore di Roberto Rossellini per Gli atti degli Apostoli e La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza, qui lo vogliamo ricordare soprattutto per lo spirito libero che traspare da due suoi piccoli film sperimentali (realizzati in coregia con Giorgio Turi), proiettati a Milano in una cerimonia informale in suo onore dopo l’allestimento di Vie, il monologo teatrale sulle “protosincronie stocastiche” che nel 2010 aveva scritto (sì, era anche drammaturgo) per l’amica attrice Gaia Riposati, la cui voce ha dialogato con l’improvvisazione al contrabbasso di Piero Cardarelli e con le immagini scelte e montate da Capanna stesso, le quali, proiettate alle loro spalle, costituivano un suggestivo contrappunto visivo al testo.

Voy – Age (1964) è “una ricerca drammatica, sofferta sull’età, sul decadere delle cose e delle persone”: le immagini mostrano l’evoluzione e il disfacimento di un microcosmo artificiale in alternanza a uno umano. I dettagli della lavorazione manuale dei metalli e degli ingranaggi meccanici, l’imponenza di una struttura complessa svettante nel cielo (un impianto industriale, una ruota panoramica) e l’ossidazione della materia fanno da controcampo all’infanzia, alla maturità e alla morte degli esseri umani. Capanna esplora le potenzialità del mezzo cinema fino a costruire una sorta di sinfonia della meccanica attraverso un “montaggio non narrativo, analogico” (Bacigalupo) di immagini ruotanti, sghembe, di prospettive ardite che rivelano il fascino per le geometrie.

Non permetterò (1967) penetra ancora più in profondità nell’impegno sociale e politico, rivelando – come ebbe a dire il regista stesso – “l’attacco più concreto alla realtà che Turi ed io avevamo rispetto ad altri artisti della cooperativa”. Immagini di soldati e di mezzi militari sono gradualmente sovrapposte e montate in alternanza con una donna che getta dei fiori ai soldati in partenza per la guerra, in un crescendo ritmico antimilitarista che crea una vera e propria confusione sensoriale acuita da un sonoro ridondante e retorico, “trovando la dialettica del suono con l’immagine, sempre, non la complementarietà, ma piuttosto la dialettica” (così affermava Capanna nel documentario Tecniche miste di Bruno Di Marino e Claudio Del Signore).

L’invito è dunque quello di (ri)scoprire le opere di questo cineasta, sia per la loro importanza storica nel contesto del cinema sperimentale e d’artista italiano degli anni Sessanta, sia perché ancora oggi esse manifestano una notevole potenza visiva ed emotiva.