Guardando il film di Esfir' Šub, torna alla mente una celebre frase di Lenin, presto diventata slogan e ripresa dallo stesso Stalin: “Il comunismo è il potere sovietico più l'elettrificazione di tutto il paese”. Nella frase, così come nel film, l'elettrificazione è celebrata come l'innesco dell'avanzamento tecnologico e diventa una sineddoche per la spinta al progresso in genere. Esfir' Šub sceglie perciò un argomento-chiave per cogliere il clima da “cinque in quattro”, quello del primo piano quinquennale. Tutto è energia e movimento: la pellicola scorre trascinando donne alla catena di montaggio, uomini e lampadine danzanti, scrosci di applausi e d'acqua di fiume.

Preoccupata di mantenere la giusta distanza sia da un approccio intellettuale che da un approccio emotivo, la Šub conserva la dialettica tra uomo e macchina caratteristica dell'avanguardia, epurandola però dagli eccessi formalistici. Se K.S.E. - Komsomol, lo sponsor dell'elettrificazione  è visivamente vicino a L'uomo con la macchina da presa, non lo è però nei presupposti teorici, dato che per Vertov l'accostamento di due immagini implica un intervallo che scatena una moltiplicazione dei punti di vista. E se Vertov decostruisce, la Šub assembla.

Fino a K.S.E., la pioniera del found footage aveva realizzato film di montaggio che rielaboravano materiale d'archivio uniformandolo in direzione ideologica. L'approccio tendenzioso era stemperato dalla provenienza eterogenea degli spezzoni, che rendeva i film una sorta di corpo collettivo. Con K.S.E., occupandosi lei stessa delle riprese e mantenendo la medesima direzionalità ideologica, non solo elimina la pluralità di voci, ma fa sorgere dubbi sull'autenticità del materiale. Verrebbe insomma da chiedersi fino a che punto K.S.E. sia un film fattografico e non, piuttosto, un film recitato.

Quando il dibattito tra film recitato e fattografia infiammava le pagine della rivista “Novij LEF, Esfir' Šub, forte della pratica del riuso, si schierava a favore della fattografia e si scagliava contro il film recitato ed Ejzenštejn. Tuttavia, in un panorama culturale sempre più rigido, sembra legittimo dubitare dell'autenticità di un gruppo di operai che applaudono convulsamente (K.S.E.), così come lo era stato per l'attore chiamato ad impersonare Lenin (Ottobre), ferma restando, in questo caso, una più subdola manipolazione schermata dall'approccio documentaristico. Nel film è il sonoro, quasi esclusivamente in presa diretta, a garantire l'aderenza al reale. Al di là del compiacimento per le nuove possibilità del mezzo cinematografico, evidente nella continua esibizione della fonte sonora, la Šub insiste sulla sincronizzazione come argomento di verità, in aperta contrapposizione con le teorizzazioni di Vertov e del primo Ejzenštejn, che consideravano il sonoro un fondamentale veicolo di straniamento.

Con questo film, Esfir' Šub intraprende una strada destinata ad imporsi - o meglio, ad essere imposta - negli anni successivi, quando, con l'esigenza di una sempre maggiore chiarezza ideologica, si giunge alla confutazione delle posizioni di quella parte di avanguardia impegnata a smascherare l'inganno del mezzo-cinema. Se la collettività è ormai una massa, chiamata all'eccellenza produttiva e alla cecità intellettuale, la macchina da presa ha quasi una funzione di controllo, prima ancora che di registrazione. Sotto la gioiosa patina propagandistica, K.S.E. è un film in cui serpeggia l'ansia per l'accelerazione dei ritmi produttivi, che costringe uomini e macchine a sottostare ad un'industrializzazione forzata sotto il giogo dell'ideologia.

In qualità di regista, Esfir' Šub pone se stessa come lavoratrice modello, una sorta di eroina del lavoro socialista ante litteram, capace di realizzare un film sul Komsomol che sia fonte di ispirazione per il Komsomol stesso. E nella celebrazione dei successi per la realizzazione del generatore o della centrale idroelettrica, è già percepibile quella ricerca dell'eccezionalità e del record che di lì a poco sfocerà nello stacanovismo.