La scorsa settimana si è tenuto un convegno, organizzato dalle Università di Bologna, Ferrara e Roma Tor Vergata, sul regista Florestano Vancini, a dieci anni dalla scomparsa ci si è posti l’obiettivo di delineare la figura di un cineasta il cui lavoro è estraneo a ogni classificazione proprio perché ha saputo attraversare i diversi generi, ambiti e settori della produzione cinematografica. Nella giornata bolognese sono stati proposti una serie di interventi sul film La banda Casaroli ed è in questa occasione che è nata l’idea di dedicargli un breve approfondimento.

“Bologna, dicembre 1950. Un giovane e imberbe Tomas Milian si aggira all’incrocio tra Santo Stefano e via Dante. La scena è ingombra di fotografi, poliziotti, giornalisti e curiosi. Si capisce che il ragazzo è coinvolto con quanto è appena accaduto. Dalle sue riflessioni sul destino dei due amici, Paolo e Corrado, parte il flashback che illustra l’antefatto. (…) Un conflitto aspro e irrisolto elettrizza le gesta criminali della banda Casaroli, dedita alle rapine in banca e alla bella vita. È difficile dire da dove arrivi questa sensazione, ma certo è qualcosa di molto lontano dai soliti ‘anni cinquanta’ su celluloide. Bologna è tetra e spettrale, sempre avvolta nella nebbia, deserta. (…) Milian /Gabriele abita in uno squallido caseggiato per profughi istriani, nessuna concessione alla falsa estetica della povertà. Salvatori/Casaroli ha una ghigna allucinata, satanica, (…) la sua smania di vivere non ha niente del fancazzismo dei vitelloni o della dolce vita romana. È una febbre rabbiosa, uno sfogo, ansia di vedere il mondo, anche se il viaggio non va oltre Venezia o Genova, paragonata addirittura a Shanghai. Prende pastiglie di simpamina per svegliare i riflessi, sbraita che il mondo si divide in due categorie, chi alza le mani e chi le fa alzare, insiste che nella vita è questione di fegato e meningi, mescola fascismo di ritorno e teorie deliranti da Superuomo. Finché non lo senti gridare: ‘Noi non saremo mai poveri!’. Lui, quello di Poveri ma belli. (…) Il finale è una scena da Far West nel pieno centro di Bologna. (…) Uno dei banditi si spara in testa durante il conflitto a fuoco, Casaroli resta ferito, Gabriele assiste impotente. Il giorno dopo minato dall’angoscia, si spara un colpo al cuore durante la proiezione di un film con Fernandel in un cinema del centro”. Questo paragrafo tratto da Asce di guerra (2000), di Vitaliano Ravagli e Wu Ming, riassume in poche righe le gesta criminali dei banditi, sullo sfondo un paese del quale Vancini indaga le eterne contraddizioni.


“Esistono altri film come La banda Casaroli? Sicuramente poca roba. Fantasmi. Di quel decennio, l’uso politico della memoria ci ha consegnato un’immagine piatta, lontana, distorta. La decade ingenua e scanzonata di Poveri ma belli. (…) Italietta stupida, con un piede ancora nel fascismo (stessi codici, stessi prefetti, stessi questori) e uno a mezz’aria, sul ciglio di nuovi baratri chiamati ‘modernità’. (…) È stato il bisogno di tranquillità, di figure rassicuranti, di pace sociale e politica a cristallizzarsi nel cinema, mentre tutto ciò che non assecondava quel desiderio veniva rimosso, censurato? Perché non era l’Italia di Peppone e don Camillo ma quella ‘con più armi sotto terra che patate’. Un paese che sognava Peppone, ma aveva i morti per le strade, sognava don Camillo, mentre scomunicava i comunisti”. (Asce di guerra).


Quella di Vancini è una lucida riflessione iniziata con La lunga notte del '43 (1960) e proseguita poi ne La banda Casaroli (1962), il primo pone l’attenzione sull’inesorabile radicamento del fascismo nella borghesia italiana, “questo è stato il dramma della borghesia d’allora”, spiega il regista, “di non aver partecipato al fascismo ma di non aver neppure saputo rifiutarlo comprendendone tutto il suo significato. Ed è un dramma tuttora attuale”. (Il personaggio positivo, incontro con Florestano Vancini in "Schermi", n. 27, 1960)
La banda Casaroli vede il ritorno di Vancini su questo tema, dopo La lunga notte del '43 aveva intenzione di realizzare “un film comprensivo verso i giovani che in quel periodo aderirono al fascismo, alle formazioni armate della Repubblica di Salò. Fu un’adesione che veniva da motivi ideali: la difesa della patria, la difesa del suolo invaso. Anzi, il fascismo speculò su questi fatti per aver l’adesione dei giovani. È un film che non è ancora stato fatto. È da fare”. (Florestano Vancini in "Schermi", n. 27)
Nel dopoguerra non si estinguono questi drammi, la difficile ricostruzione in atto privilegia il dramma resistenziale, ma il presente è per tanti un continuo smarrirsi tra ideologie solo parzialmente tramontate, caricate del rancore verso una società ingiusta alla quale si attribuisce la colpa della morte dei propri ideali: “Alla generazione degli ‘sbandati’ dell’8 settembre, sta per succedere la generazione degli ‘sbandati’ degli anni cinquanta, una generazione, nata dalle promesse di una nuova vita e una nuova cultura, sostanzialmente estranea, se pure non del tutto immune, all’esperienza del fascismo”. (Giovanna Grignaffini, La banda Casaroli, in Tradizione e innovazione nel cinema degli autori emiliano romagnoli, a cura di Adelio Ferrero, Modena, 1976).


Vancini sente l’urgenza della rappresentazione critica di un’epoca che trova nel presente lunghissimi strascichi, interrogandosi sui motivi concreti e al tempo stesso ineffabili che porteranno alla strage bolognese della banda Casaroli, per il momento, l’estrema conseguenza del continuo riaffiorare di contrasti irrisolti. Sono i conflitti interiori dei protagonisti, in modo particolare del carismatico Paolo Casaroli, a interessare il regista, ragazzi della sua generazione, giovani disillusi legati da una profonda amicizia che permette loro di trovare le forze per uscire allo scoperto; un patto di morte, il lancio in aria di una scatola di fiammiferi, testa o croce… fu il destino a scegliere!
“Se veniva testa, continuavamo a cercare un impiego; invece era croce; e allora avanti con le banche”, racconta Casaroli in un intervista rilasciata a Enzo Biagi pubblicata sul “Giornale dell’Emilia” quando ancora si trovava in ospedale, ricoverato subito dopo la sparatoria.
“Non c’entra un po’ il cinema, in questi discorsi?”, gli domanda Biagi.
Nel numero di “Crimen” uscito il 30 gennaio 1951, con uno speciale sulla banda Casaroli, le biografie dei banditi e i fatti di cronaca vengono descritti meticolosamente, anche l’abbigliamento dei tre passa sotto la lente d’ingrandimento: “Sotto gli abiti fiammanti, sempre camice nere o blu e cravatte bianche, alla Richard Widmark”. I riferimenti all’estetica hollywoodiana e l’influenza dell’immaginario cinematografico sono un ridicolo tentativo del giornalista di dare un senso all’esaltazione fuori dal comune di questi giovani dagli “atteggiamenti filmistici, che li fanno ritenere ‘eroi’, cinici, spavaldi, sicuri – troppo sicuri – di se stessi: dalla celluloide dell’infanzia alla più recente ‘performance’ di banditi, irrealmente romantici, anacronisticamente cospiranti”. (Vincenzo Bassoli, La banda Casaroli di Florestano Vancini, Bologna, 1962). Una vicenda che non può che concludersi con un suicidio in un cinema, appunto.


La Bologna del film è una città fredda e nebbiosa, il Natale è alle porte e qualche isolato zampognaro ne percorre le gelide strade; per meglio comprendere lo spirito petroniano Vancini dice di essersi ispirato al libro di Renzo Renzi, Bologna, una città, arricchito dalle fotografie di Aldo Ferrari, edito da Cappelli nel 1960. Nel 1962 la stessa casa editrice, nella collana Dal soggetto al film, pubblicherà la sceneggiatura accompagnata da numerosi materiali e interviste che ricostruiscono la genesi della pellicola.
“L’immagine più vistosamente antica di Bologna è data dalle torri”, scrive Renzo Renzi, e prosegue, “note alte e squillanti in una città che si consuma nella terracotta e nelle furtive, terrestri, fughe di portici che serpeggiano nella parte bassa, esse portano in alto, sopra i tetti rossi delle case, i simboli di una potenza arcigna e militaresca, destinata a confessare i sogni oscuri di una popolazione apparentemente grassa e paciosa”.