Quando l’allora esordiente Lorenzo Vigas vinse, nel 2015, il Leone d’oro al miglior film con il suo Ti guardo la reazione fu di totale inattesa e sorpresa. Da un lato aveva vinto un piccolo esordio lontano da ogni previsione, dall’altro il riconoscimento più alto della Mostra del Cinema andava, finalmente, per la prima volta a un film in lingua spagnola e per la prima volta a un film sudamericano.

Oggi il regista venezuelano torna alla settantottesima edizione, sempre in concorso, con il suo secondo lungometraggio La caja, un film non molto distante dal suo precedente che rischia di rimanere incastrato nel microcosmo del “cinema da festival” (o “cinema da festival di Venezia”), ma che contemporaneamente prova a dare respiro alla sua opera costruita su assi definiti e ricorrenti, prolungando e concludendo quella da lui definita come una trilogia sulla figura del padre, introdotta con il corto Los elefantes nunca olvidan e proseguita con Ti guardo.

Per Vigas le figure del padre mancante e delle famiglie fratturate sono essenziali se si vuole parlare del Sud America, sia da un punto di vista realistico-individuale che simbolico-sociale. In questo suo secondo film decide di affrontare il tema immergendolo nella dimensione del lutto, raccontando di un’adolescente di Città del Messico, Hatzin, in viaggio tra le desolate pianure del nord del Messico alla ricerca dei resti del padre trovati in qualche fossa comune.

In una delle sequenze introduttive il ragazzo riceve i resti in una cassa (la caja in spagnolo), impassibile, svuotato, mentre alle sue spalle, fuori fuoco, qualche famiglia già affronta la morte di un caro attraverso un pianto liberatorio. Vagando con questa scatola di metallo, pesante e ingombrante come un lutto, Hatzin incontra un uomo che ha tutte le sembianze del padre e si convince di non essere ancora del tutto orfano. Seguendolo inizia a vivere e a lavorare insieme a lui, sprofondando in un mondo duro ed efferato.

Cosi, se nel corto Los elefantes nunca olvidan il rapporto padre-figlio si costruisce come elemento conflittuale interiore mostrando al bambino protagonista l’uomo che deve uccidere come padre di famiglia, toccando così il peso etico della sua scelta, e in Ti guardo i padri sono mancanze, inadempienze, vuoti traumatici per i due protagonisti che sembrano trovare l’uno nell’altro, nel loro rapporto sessualizzato, figure riparatorie; in La caja il padre è defunto, ma è anche sopravvissuto, è un dolore legato alla morte e una speranza legata alla possibilità della vita. Un padre, ma anche un capo, un educatore per un protagonista spinto sempre più verso il futuro.

Giocato, come i lavori precedenti, su tensioni di sguardi e silenzi interrogativi, Lorenzo Vigas intreccia lutto e coming of age nelle ostili terre messicane dove il lavoro, anche quello minorile, è visto come terreno di guerra e sterminio, tra discorsi motivazionali, arruolamenti e morti occultate. Sostenuto dalla fotografia di Sergio Armstrong, noto collaboratore del Larraín sudamericano (Ema, Neruda, Post Mortem…), e prodotto da Michel Franco, il regista venezuelano conclude la sua trilogia guardando ai margini del Sud America con un film che fatica però ad aggiungere qualcosa di veramente rilevante al lavoro di un autore che rischia davvero di rimanere incastrato in un’etichetta e schiavo dei suoi successi d’esordio.