Scossi da una disperazione inedita, poiché incommensurabilmente lontani dal contegno aristocratico di chi senta stringere il cappio intorno al collo, due furetti, rammaricati per la triste decisione del destino, si dimenano tra le braccia di una gabbia priva di elasticità. Qualcosa che non avevano mai visto. Non una porta aperta, non una luce in corridoio, non un’anima a intercedere per la loro liberazione. In sottofondo si sente una musica robusta, per niente incerta, come un piccolo esperimento personale perseguito con grande serietà.
Contemporaneamente, si insinua nello spettatore, come una febbre che cresca in modo allarmante, il presentimento che i campanellini non siano strumenti musicali manovrati con precisione e sapienza. E, al di là della disciplina di una melodia che sembra aver assorbito la correttezza di un esercito in marcia, nello spettatore si insinua l’ulteriore sensazione che oltre i trilli si celi la stolida tranquillità di una resa dei conti. Ai due furetti, intanto, in attesa d’un processo ingiusto, rimane la consolazione d’immaginare. Non tanto la fuga, quanto la meravigliosa speranza che, sotto un cielo circondato dall’azzurro profondo della luce del giorno, ai carnefici, stufi degli insuccessi malcelati e della miseria accumulata, si aggiunga, annidandovisi, la tentazione di uccidersi.
Osservando la scena d’apertura di La caza, terza opera dello spagnolo Carlos Saura, pare affiorare una comunanza spirituale con un’altra pellicola altrettanto arida, nonostante l’umidità segreta della trincea raccontata, Per il re e per la patria di Joseph Losey. Nel caso di specie, mentre divampa un serrato dibattimento tra la difesa, chiamata a chiedere clemenza (visione più illusoria del miraggio) per un disertore esasperato dalle consuete atrocità ammesse in guerra, e l’accusa, il plotone processa un topo. Catturata per gioco, la povera creatura appare dal fango, il grande spazio torbido nei cui gorghi si sono dissolti, insieme a mire espansionistiche grottesche, i reggimenti. Rappresentando quasi un intermezzo, questo momento di pausa, inquietante nella descrizione della scanzonatezza messa in scena dai compagni dell’accusato nella riproduzione dei rituali giudiziari, impeccabili preamboli precedenti l’applicazione della dura lex, perturba per due motivi.
Da una parte, l’animale intirizzito e ignaro del lessico procedurale in ugual misura disavvezza l’uomo dalla compassione. Dall’altra, l’inconsapevolezza, inconscia e tenace, dell’essere umano di dominare quotidianamente un’arma più sgradevole del proiettile, della nitroglicerina. Basta una parola, indispensabile per legittimare e patrocinare l’idea. Vigilando pazientemente sulle sfumature del linguaggio, l’uomo si fa incantare dalla parola, poiché l’elaborazione dei pensieri ne rivitalizza con una cosmica onnipotenza le supposte virtù. Da qui derivano forse quelle lungaggini in grado di rendere un processo, oltre che asfissiante per chi lo subisca, un confronto affascinante.
Rivitalizzando tutta la complessità e ricchezza del genere umano, anche nelle ipotesi in cui ciò possa determinare una dolorosa esecuzione. Un’unica cornice in cui gli spettatori della Mostra potranno riscoprire entrambe le opere qui citate, Venezia Classici. Considerato generalmente una metafora della guerra civile spagnola, La caza è la storia di un confronto tra quattro persone. Tre uomini, veterani falangisti, si ritrovano in un villaggio situato nella provincia della Castiglia per trascorrere una calda giornata estiva a bere, ricordare il passato e cacciare conigli.
José, che ha proposto l’idea della caccia, è indebitato a causa di un imminente divorzio e vive al di sopra delle sue possibilità con una donna più giovane. Il suo principale obiettivo è quello di ottenere un prestito da Paco, un astuto uomo d’affari, anche lui infelice in amore e in cerca di donne più giovani. José porta con sé Luis, impiegato nel suo negozio. Un individuo sconsolato, più interessato al cognac e alla fantascienza che alla convivialità e al cameratismo maschile. Infine, Enrique, giovane parente di Paco, li accompagna per il brivido della caccia ai conigli. Repentinamente inzuppato di un sudore prossimo alle ossa, ognuno, camminando sul buen lugar para matar, come afferma Luis una volta raggiunta la destinazione, s’ingegna nella riconfigurazione della rispettiva morale.
Ogni riflessione introspettiva rinverdisce, invece di decifrare, tutti i possibili enigmi. Ciascuno presagisce la meschinità omicida dell’altro, accumulando, oltre alla selvaggina, i medesimi impulsi da misconoscere nel giorno di festa. Come se il passo pari si identificasse nella morte, come se il passo dispari conoscesse la resurrezione, alimentando a malapena una cautela raggrinzita dalla canicola e da una laconicità inevitabile. Quale avversario uscirà inizialmente dalla tana?
Premiato a Berlino, con l’Orso d’argento attribuitogli ancora due anni dopo per Frappé alla menta, Saura, autorevole voce del Nuevo cine español, insieme a Basilio Martín Patino, Mario Camus e Angelino Fons, qui co-sceneggiatore, formulò con La caza un’accusa esplicita. Aggirando obliquamente la censura, smentì da una parte il timore caldeggiato da Juan Antonio Bardem, che definì il cinema spagnolo “politicamente inefficace, socialmente falso, intellettualmente trascurabile, esteticamente nullo, industrialmente rachitico”, in una conferenza tenuta nel 1955 a Salamanca. Soprattutto, nonostante il pieno sostegno da parte del censore falangista deputato alla valutazione della pellicola, il poeta e critico Marcelo Arroita Jáuregui, non avvalorò l’impressione che in Spagna i venticinque anni di pace franchista fossero davvero celebrati.
Per l’asprezza satirica esercitata attraverso un simbolismo in aperta opposizione con l’amicizia rispettabile tra compagni di sventura, per la violenza, prima suggerita come se fosse una finezza da dosare con attenzione, poi brutale, il film suscitò dibattiti e sollevò polemiche. Tanto da indurre il regista Manuel Gutiérrez Aragón a dichiarare con forza che esista un cinema spagnolo prima dell’uscita del film e un altro dopo [1]. Tuttavia, oltre ogni classificazione, come definito da Saura, viste le pochissime risorse impiegate per girarlo, è la storia di un confronto. In cui si mescolano anarchicamente realtà e fantasia, corpi e fantasmi, azione e immobilità, in cui si combatte un conflitto senza uniformi.
La storia dello scorrere del tempo, che cinicamente confessa all’uomo, fornendogli una strana esistenza punteggiata di tanto in tanto di delicatezza e luce, di averlo tradito, consegnandogli una vecchiaia e un futuro che non credono né a farmaci né a rimedi. La storia di un mondo apocalittico in cui l’umiliazione più grande è rimanere in vita, correre e ansimare nel tentativo di salvarsi la pelle.
[1] A. M. Torres, Conversaciones con Manuel Gutiérrez Aragón, Fundamentos, Madrid, 1985, p. 28.