Ci sono volti che hanno letteralmente incarnato la storia del nostro Paese, facce che in ogni espressione hanno raccontato il mutamento della nazione, corpi che vestendo i panni più disparati hanno accompagnato gli spettatori verso il futuro. Interpreti che tra esperimenti, successi e insuccessi, sono stati assunti dalla critica come emblemi di un periodo e che per generazioni di ammiratori continuano a rappresentare dei tasselli inossidabili nella memoria collettiva. Uno di questi indubbiamente è quello di Maria Luisa Ceciarelli, in arte Monica Vitti, classe 1931, che in occasione dei novant’anni merita uno spazio di riguardo nonostante l’assenza sul grande schermo da più di tre decenni.

La carriera cinematografica di Monica Vitti occupa un posto fondamentale nel mosaico della recitazione italiana, contraddistinta non solo da una vivace versatilità, ma anche da una camaleontica propensione attoriale che ha riguardato in primis la canonicità del corpo della donna. Un primo aspetto da tenere in mente per comprenderne la grandezza è infatti quello della modernità: sono proprio i lineamenti irregolari, la capigliatura selvaggia, il profilo enigmatico che le consentono di tradurre l’alba di un nuovo archetipo femminile dinamico, non convenzionale, audace.

Alle procaci bellezze del secondo dopoguerra Monica Vitti invero ha sostituito una fisicità inedita con forme longilinee e slanciate: le maggiorate fisiche che avevano imperversato con l’ondata del Neorealismo – dalle figure tragiche come Silvana Mangano e Lucia Bosè a quelle irridenti del filone “rosa” come Gina Lollobrigida e Marisa Allasio – cedono ora il passo a un corpo che rilancia l’occhio dello spettatore e che rivendica questioni di scottante attualità, dal delitto d’onore alla rivoluzione sessuale, dalla parità di genere alla riappropriazione dei diritti individuali.

Con questa performer moderna le caratteristiche giunoniche anni Quaranta e Cinquanta si assottigliano, plasmandosi in lineamenti spigolosi in cui la mimetica trova la sua affermazione più consistente nel sorriso e nel gioco di sguardi, con la comicità quale strumento di seduzione e allo stesso tempo arma indispensabile per sviluppare un discorso ridicolizzante sul ruolo della donna nella società dei consumi.

Un marchio che permette a Vitti di distinguersi inoltre è la voce, solitamente attribuita alle caratteriste o ai personaggi secondari, un timbro inconfondibile che dalla sala di doppiaggio si sprigiona poi al cinema in una vasta gamma di sfumature, dall’asprezza dei personaggi smarriti nelle pellicole di Antonioni alla nasalità seducente di Modesty Blaise - La bellissima che uccide (Modesty Blaise, 1966) di Losey, dal canto fioco di Floria Tosca nelle parodie musicali di Trovajoli ne La tosca (1973) di Magni al tono buffonesco in Teresa la Ladra (1973) di Di Palma.

Quello di Vitti è un cambiamento non solo meramente fisico, ma anche e soprattutto semantico che ha investito il significato del corpo femminile nella narrazione e nella messa in scena cinematografiche, coniugando i tormenti di un paese travolto dal boom economico con una galleria di eroine impregnate dallo sconvolgimento del costume nazionale, una costante rintracciabile tanto nella sobrietà stilistica della cosiddetta “trilogia dell’incomunicabilità” di Antonioni quanto nel terreno della commedia anni Settanta.

La “malattia dei sentimenti” fotografata da Antonioni difatti incorpora i segni di una modernità restituita con un minimalismo interpretativo sì misterioso e affascinante, ma comunque vibrante, pronto a esplodere successivamente in prove iperboliche memorabili. Il versante concettuale ravvisabile nei personaggi di Claudia (L’avventura, 1960), Valentina (La notte, 1961), Vittoria (L’eclisse, 1962) e Giuliana (Deserto rosso, 1964) effettivamente è un’etichetta da cui l’attrice si è svincolata per approdare al genere della commedia in cui ha espresso al meglio la propria vis comica, raggiungendo una credibilità eguale a quella di illustri partner maschili come Manfredi, Sordi o Tognazzi.

A tal proposito, tanto nel registro drammatico quanto in quello comico le performance di Monica Vitti possono essere lette in chiave protofemminista se analizzate come le testimonianze di un graduale aggiornamento delle relazioni tra uomo e donna, anticipazioni briose che, seppur sotto la patina fumettistica, denunciano a loro modo l’urgenza di rivalutare i codici della comunità. Pur non sfociando nella smaccata contestazione, questo sovvertimento dei cliché in ogni modo ha visto la battaglia di eroine screwball che finiscono per assurgersi a motore dell’azione, dalle borghesi annoiate alle proletarie passionali che sbuffano, corrono, inciampano, gesticolano e litigano furiosamente, finendo addirittura vittime di schiaffoni in scene da manuale – iconica la sequenza dell’inseguimento sulla spiaggia di Sabaudia in Amore mio aiutami (1969) di Alberto Sordi.  

Monica Vitti ha saputo dunque adattarsi allo schema della “commedia all’italiana” tramite un compromesso in grado di rispettare i ritmi e lo storytelling tradizionali, non mancando di operare un ribaltamento degli stereotipi non solo più in quanto “musa” dell’inquietudine urbana e del nonsense esistenziale, ma anche come pagliaccia nelle parate carnevalesche di Monicelli, Salce e Scola. Le ambizioni e i desideri inconfessabili di donne tese a un’ascesa sociale, sessuale e sentimentale come Assunta ne La ragazza con la pistola (1968) di Monicelli o Lisa ne L’anatra all’arancia (1975) di Salce, per esempio, sono restituiti da Vitti con ironia e veracità, due firme di stampo prettamente “romanesco” che hanno sempre concorso alla costruzione della sua star image.

Una diva così sfuggente, in effetti, da non essere controllata e sfruttata a pieno dal circuito internazionale, eppure padrona della propria arte, con una capacità unica di cogliere le fragilità umane mantenendo momenti emozionali ricchi di sensualità anche all’interno della cornice farsesca, dominando l’inquadratura con intensità clownesca come in Polvere di stelle (1973) di Sordi.

La professionalità e la dedizione riscontrabili nel modus operandi di Monica Vitti non hanno appiattito comunque l’eterogeneità dei suoi ruoli, messi in scena negli ambiti performativi più disparati: è proprio la sua vena fantasiosa a consolidare un’inesauribile voglia di giocare, dalla prosa teatrale al cinema d’autore fino alle numerose incursioni nel mondo televisivo, dall’avanspettacolo café-chantant con Mina e Raffaella Carrà nel programma Milleluci (1974) alle miniserie e ai contenitori dei primi anni Novanta.

Anche Scandalo segreto (1990), suo esordio alla regia e ultima apparizione cinematografica, benché considerato come un tentativo di sperimentalismo non perfettamente riuscito, conferma in ogni caso una sua poliedricità riconosciuta già nel 1966 durante la partecipazione a Studio Uno condotto da Lelio Luttazzi, il quale, tra scherzo affettuoso e parodia dell’intellighenzia cinefila, le domanda: “Tu mi cominci facendo l’attrice comica, mi continui facendo l’attrice impegnata dell’incomunicabilità, mi continui ancora facendo la Monroe a teatro, mi finisci per fare 007. Monica mia, devi dirmi, ma tu, chi sei?”. “Io sono un’attrice, ecco tutto” è la risposta gaia e tagliente.

Attrice senza pari nel firmamento delle icone della storia del cinema, tra fotogrammi che scorrono e ricordi depositati nel pubblico di ieri e di oggi, vuoto incolmabile della più grande mattatrice, nella polvere di stelle.