Un video porno, tre capitoli e tre possibili finali. In questo preciso ordine. Un uomo filma la donna, mentre fuoricampo la voce della madre di lei dice che la figlia non si è igienizzata le mani. Siamo in piena pandemia. Poi il titolo, Sesso sfortunato o follie porno, e il sottotitolo "una parodia di un film popolare". La protagonista è una professoressa e il sex tape è improvvisamente comparso online agli occhi dei genitori dei suoi alunni. Sembra banale e scontato dire che Sesso sfortunato o follie porno, ultimo film diretto da Radu Jude e vincitore dell’Orso d’oro all’ultima Berlinale, restituisca lo spirito del tempo di questi anni, tuttavia è quasi impossibile dire il contrario. Mentre ormai sono mesi che stiamo aspettando di vedere dei film che sembrano non uscire mai, messi “nel congelatore” in attesa di un periodo indefinito futuro, nel quale potranno viaggiare liberi, un regista come Jude sembra non avere nessuna intenzione di aspettare, in velocità reagisce alla contemporaneità su tutta la linea.

Non è il primo lavoro di Jude ad avere la pandemia come sottofondo. Con il corto O Fabula (in Spaces #2) il regista già riproponeva alcune delle traiettorie ricorrenti nel cinema di inizio pandemia, di cui in questi mesi si è inaugurata un’analisi critica. Ma, parlando di Sesso sfortunato o follie porno, c’è un distinguo da fare: potremmo iniziare a dire che c’è un cinema che si fa racconto dei lockdown e delle quarantene, mentre un altro che, come in questo caso, si discosta da quelle forme ben codificate, raccontando un dopo. Se il primo mostra un impatto che in genere è individuale, il secondo racconta una reazione che sembra farsi collettiva.

Se in parte il cinema del lockdown è codificato, come ha individuato Giulio Sangiorgio sulle pagine di Film Tv, dal manifestarsi di un immobilismo spesso localizzato in geografie domestiche, nel primo capitolo di questo film la protagonista cammina, attraversa (non è attraversata) luoghi pubblici della città: supermercati, bar e parchi giochi. Nel frattempo la regia la mette in relazione con la folla attraverso una scelta ricorrente e sistematica: una panoramica che la pedina da un lato all’altro del suo raggio di sguardo, per poi perdersi in un cartello, un’insegna o un monumento. Da una parte Jude tenta di porre attenzione alla città attraverso una mappatura del paesaggio urbano che ne restituisca la condizione attuale, ma allo stesso tempo emula alla perfezione lo sguardo del passante, del curioso, dell’utente web che guarda e scompare.

Mentre il secondo capitolo allude al film-saggio (altra forma codificata nelle produzioni del lockdown), il terzo torna a ribattere su quel territorio di reazione collettiva, con un dibattito in cortile (tra alti e bassissimi) tra la professoressa e i genitori degli alunni a discutere di pornografia, educazione e olocausto. Ne viene fuori, ancora, il ritratto di una nazione, della sua storia e delle sue colpe, tra ipocrisie e ironie: due cose che per il regista sembrano essere strettamente legate.

Alla fine dei conti quello di Radu Jude è un cinema ossessionato dal concetto di nazione, un cinema (nazional)popolare più nei riferimenti testuali che nella fruibilità, toccato solo raramente da una certa capacità di astrarsi e rendere il discorso più universale. Si pensi alle esplorazioni del passato rumeno dei re-enactment di I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians o del film-saggio The Dead Nation o a quell'atipico western storico in bianco e nero che è Aferim!. Nello smascherare ipocrisie e ironie il suo cinema si fa impegno civile “disimpegnato”. Così come suggerisce in questo suo ultimo film alla lettera Z nel secondo capitolo: "Un vero poeta deve essere allo stesso tempo tragico e comico; la vita umana deve essere vista sia come una tragedia che come una commedia". E Jude la sua vita e quella della Romania le vede come nessun altro: prima come un porno e poi come un cinecomic.