Provano a cambiare il finale della loro storia, Bernard e Mathilde (Gérard Depardieu e Fanny Ardant): quel finale sofferto vissuto otto anni prima, quando lei lo aveva lasciato perché lui amava (troppo) le donne. Ora che si ritrovano vicini di casa, però, il passato sembra abbastanza lontano perché possano provare nuovamente a stare insieme senza farsi del male e soffrire. Il fatto che siano entrambi sposati pare quasi un dettaglio trascurabile in questa ipotesi che si rivelerà una malata follia. Ma l’amore non perdona e i due amanti vengono trascinati in un vortice di ossessione e passione.

La signora della porta accanto, ventesimo lungometraggio di François Truffaut, è una storia d’amour fou nel senso più cinematografico del termine: l’alchimia tra Ardant e Depardieu è palpabile in ogni scena e il restauro in 4K permette di godere nuovamente appieno di luci, ombre e cromie che sottolineano gli stati d’animo dei protagonisti, ma è soprattutto la progressione drammatica della narrazione – puntellata dalla ripetizione del loro dialogo “Aspetta, aspetta!”/“Aspetto”, stimolante ogni volta una nuova lettura e interpretazione – a manifestare il loro graduale essere travolti dalla malattia d’amore.

Lo svenimento di Mathilde, subito dopo il nuovo primo bacio con Bernard, già rappresenta la passione amorosa come qualcosa che sconvolge e intacca da un lato il controllo razionale sulle proprie reazioni, dall’altro la fisicità stessa del corpo. Il primo si sfalda sotto i nostri occhi di spettatori a mano a mano che i due amanti proseguono la loro relazione, rischiando sempre più di essere scoperti compiendo azioni che da “lucidi” non si permetterebbero mai (organizzare incontri clandestini, affittare una stanza d’albergo, baciarsi di fronte a una folla di amici e colleghi…); la seconda è altrettanto compromessa perché riflette il malessere emotivo: non è un caso che Bernard non si capaciti delle proprie azioni, né che Mathilde abbia un esaurimento nervoso che la porta in ospedale dove sembra, oltretutto, non voler guarire. Anche la volontà, infatti, è impotente contro gli assalti d’Amore che sì, poeticamente vincit omnia, ma – per dirla con le parole del regista – è causa di “colpi di una violenza terribile”.

È appunto violento il sentimento che lega i due protagonisti del film: un legame possessivo, geloso, che spaventa sé stessi e l’altro/a (“Tu mi fai paura” dice Mathilde a Bernard) perché rasenta la follia e conduce l’uomo ad aggredire fisicamente la donna. La narrazione, costruita come un ingranaggio perfetto dalla sceneggiatura di Truffaut, Suzanne Schiffman e Jean Aurel, procede in un crescendo costante di tensione, sia drammaturgica sia emotiva, che avvinghia sempre più la coppia in una morsa fatale fino al drammatico finale, quando all’“Aspetta” si aggiunge l’atteso invito “Vieni” ed Eros e Thanatos si abbracciano inscindibilmente.

Per Truffaut l’amore è sempre devastante: sebbene in altre sue pellicole l’esito del suo operare non raggiunga esiti così tragici, gran parte della sua filmografia ci ricorda che dall’amore non si esce comunque mai indenni, né emotivamente né fisicamente. Lo sa bene la narratrice dell’infelice storia di questi due amanti: madame Jouve (una straordinaria Véronique Silver) porta su di sé i segni di un altro amour fou tragicamente finito molti anni prima.

Nella ronde dei caratteri che “danzano” intorno ai due protagonisti, il suo è un personaggio stupendo, scritto splendidamente e interpretato con grazia, nel quale a chi scrive pare più evidente che in altri casi l’affetto che Truffaut nutre per i propri personaggi, forse per quel misto di saggezza e malinconia che la contraddistingue.