Il cinema felliniano continua ad avere in tutto il mondo spettatori e ammiratori, critici cinematografici e ricercatori studiano i significati dell' eredità artistica lasciata dal grande Maestro del cinema italiano. Perciò, in Brasile, la UFBA-Universidade Federal da Bahia, riunendo undici saggi, per l'anno del Centenario della sua nascita, ha voluto dedicargli il volume Diálogos com Fellini (EDUFBA, Salvador, 2020). Il presente saggio è un estratto dell'originale in portoghese. In esso si analizza il film La strada (uscito in Brasile con il titolo A estrada da vida), e se ne ricordano anzitutto le origini.

Si racconta che Luigi Rovere, produttore del film Lo sceicco bianco (1952), pianse dopo aver letto la sceneggiatura de La strada. Fellini gli chiese: "Ma ti è piaciuta?" e lui: “Un film come questo non ti farà guadagnare un centesimo. Non è cinema, questa è letteratura." Fellini contattò il produttore Lorenzo Pegoraro che diede la sua disponibilità, ma non era d'accordo a che la protagonista femminile fosse Giulietta Masina. Così Fellini lasciò da parte il progetto, e girò I yitelloni (1953). In seguito ottenne un finanziamento per La strada da Carlo Ponti e Dino De Laurentiis. Quest'ultimo voleva che la protagonista fosse Silvana Mangano, ma Anthony Quinn - che lavorava con la Masina in Donne proibite - si innamorò della sceneggiatura e scelse Giulietta come sua compagna. Le riprese iniziarono nell'ottobre 1953, si interruppero più volte e terminarono nel maggio 1954. Il film uscì il 22 settembre 1954, con un cast composto da Giulietta Masina, Anthony Queen, Richard Basehart, Aldo Silvani, Lidia Venturini, Marcella Rovere. Fotografia di Otello Martelli, produzione di Carlo Ponti e Dino De Laurentiis. Alla sceneggiatura collaborarono Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano, ma il tema principale era del regista, sublimato dalla colonna sonora di Nino Rota.

Nel 1954, recensioni sul film apparvero su molte riviste specializzate italiane, come "Bianco e Nero", "Cinema Nuovo", "Rivista del Cinematografo". Alcune recensioni lodavano il giovane regista, altre lo accusavano di usare poetiche patetiche  e irrazionali. Ad esempio, Guido Aristarco scrisse che Fellini era anacronistico, "invischiato com'è in problemi e dimensioni umane largamente superate". Invece su "Il Tempo" Vittorio Bonicelli scriveva: "Penso sia ingiusto dire che Fellini ha costruito un film di evasione dalla realtà. Si potrà se mai discutere la natura dell'uomo Fellini, quella sua ben reale inclinazione alla creatura eccezionalmente ‘innocente’, nel senso dostojewskiano". Analizzando i personaggi potremo scoprirne metafore. Gelsomina è ingenua e disperata, ma allo stesso tempo sognatrice, simbolo di speranza, pazienza e gentilezza. Povera ma coraggiosa, anche se sottomessa a Zampanò, lavora per mandare soldi alla famiglia. Quando la giornata finisce bene e riceve un piatto di cibo, i suoi occhi si illuminano. Le basta quel poco per stare bene. L'essenza di tutto il film, o comunque uno dei suoi momenti più alti, risiede nelle parole con cui il Matto la consola. Capita un giorno in cui lei si sente inutile e i suoi occhi spaventati incontrano lo sguardo intelligente e divertito del Matto che dice:

"[...] Non ci crederai, ma tutto quello che c'è a questo mondo serve a qualcosa. Ecco, prendi questo sassolino, per esempio. Anche questo serve a qualcosa, anche questo sassolino. E a cosa serve? È Dio che sa tutto: quando nasci, quando muori. E chi lo sa? No, non so a cosa serva questo sassolino, ma a qualcosa deve servire. deve esistere per qualcosa. Perché se questo è inutile, allora è inutile tutto: anche le stelle. E anche tu servi a qualcosa, con la tua testa di carciofo."

L'amore spinge Gelsomina a resistere, quasi fosse una missione di vita. Zampanò invece è una roccia, sia fisicamente che emotivamente, eppure non sa come affrontare ciò che prova per Gelsomina. Solo di fronte alla sua morte Zampanò capirà che significato abbia per lui quella ragazza con la “testa di carciofo”: l'essere bruto prenderà coscienza e diventerà un essere umano. Ma Fellini parte dal Neorealismo e il film La strada contiene elementi di realtà. La storia ci offre immagini di un'Italia appena uscita dalla Seconda Guerra mondiale, con i suoi piccoli paesi, gente semplice, dove la fotografia superba ci avvicina a luoghi aridi, immobili, dove anche la stessa natura sembra immobile. Il film è costruito sullo sfondo della periferia romana, del lungomare di Ostia, della spiaggia, ma anche della neve degli Appennini e di due paesi laziali: Civita di Bagnoregio e Bagnoregio. Tutto parte da luoghi periferici dove la strada diventa la “grande madre”, e personaggi periferici diventano centrali.

Gelsomina, ceduta dalla stessa madre, ci riporta ad un grave problema sociale, presente nella penisola italiana ancor prima dell'unificazione, la vendita di figli da parte di padri e madri che non potevano dare loro un futuro. Li vendevano ai circhi, ai venditori ambulanti, ad  artisti di strada ed emigranti. Da questo inizio fondato sul realismo, Fellini inizia il suo volo. Vola in un'altra dimensione, e con ciò sembra dire che la rinascita, la ricostruzione, non può che partire dal recupero della possibilità dello stupore, di fronte all'importanza di ogni sassolino, della compagnia, della solidarietà, di una voglia di sorridere più grande di qualsiasi tipo di odio. Non è un caso che il film sia stato girato in parte nel celebre Circo Saltanò, con attori e personaggi di quel circo, tanto che Fellini cambia il nome di Anthony Quinn dall'iniziale Saltanò in Zampanò, unendolo a Zamperla - cognome di un'altra famosa famiglia circense. In questo circo, simbolo della vita umana, assistiamo ad un bel ricordo del vecchio circo, rappresentato dal numero di Gelsomina che suona in compagnia del Matto.

Qui Fellini mette in scena per la prima volta la figura del clown, visto che Gelsomina finisce per diventare un clown, con tratti ed abiti ispirati a Charlot. Il clown esiste nella mitologia di ogni popolo e rivendica la discendenza da quel "Briccone divino", "Trickster", o "Divine rascal" che, secondo Paul Radin, Karl Kerényi e Carl Gustav Jung appartiene alle più antiche forme di espressione dell'umanità. Non fa distinzione tra il bene e il male e le sue azioni irregolari sono segnate da risate e ironia. Non è difficile, quindi, rintracciare una certa affinità con il clown moderno e il buffone medievale. Quest'ultimo spesso era nano o deforme, considerato stupido o pazzo, una persona ai margini della società, perché non appartenente a nessuna delle classi dell'epoca: contadini, preti, monaci, guerrieri. Proprio per questo era libero di vestirsi come voleva, poteva dire ciò che voleva e si attirava l'ira dei teologi perché parlava di sesso senza tabù, e perché il riso sembrava allontanare gli esseri umani dalla ricerca di Dio. A dimostrazione possiamo qui ricordare, ad esempio, Il nome della rosa di Umberto Eco, in cui la storia ruota attorno a un monaco benedettino che voleva nascondere un manoscritto, il libro della Poetica di Aristotele, dedicato alla commedia. Si trattava di un manoscritto molto pericoloso perché avrebbe legittimato la risata. Eppure, nella realtà medievale, un religioso si era opposto decisamente a tutto questo:  San Francesco d'Assisi. Si era autoproclamato  “il giullare di Dio” (Frugoni, 2014, p. 1-35) proprio per sottolineare la sua volontà di rinunciare ai valori mondani, per poter godere di un riso, di una gioia piena e leggera, e così ringraziare e aiutare gli altri.

Possiamo quindi chiederci: che cosa rappresenta il Matto se non una specie di trickster, un essere giocoso con le ali di carta, che con la sua risata ispira Gelsomina e le dà lezioni di saggezza? Inoltre, gli elementi che compongono questo personaggio - il discorso sul sassolino, il lavoro da funambolo, la sua vena strana e divertente, la sua morte innocente sull'erba, sotto a quel cielo - fanno parte di un' alta poesia. Nella risata e leggerezza del Matto c'è una poesia profonda e semplice, che trasporta Gelsomina nel sorriso della vita, così come accade altre volte nel film, quando, ad esempio, sorride e suona con i bambini, sorride e suona la tromba, o quando cena con Zampanò e sorride.  L'effetto poetico in Fellini è molto frequente anche nella fotogenesi dei piani, che lo porta a produrre scene indimenticabili. Gelsomina e il Matto sono immagini cariche di un'intensa forza poetica che nasce anche dallo sguardo, dal gesto, dal movimento. Se focalizziamo Gelsomina, ad esempio, il silenzio del suo personaggio esige che il corpo esprima ciò che le parole non possono dire: così abbiamo sguardi, movimenti, un'alzata di spalle, un modo di camminare. Secondo la poetessa e saggista brasiliana Maria Esther Maciel (2004, p. 71), la poetica si manifesta, nel punto in cui il discorso filmico, scomponendo un fatto nei suoi elementi fotogenici, si libera dalla logica della sequenzialità del racconto e, attraverso le risorse tecniche del quale si costituisce, rivela l'essenziale di un gesto, di un oggetto, di un sentimento. Questa è la magia e il fascino del cinema di Fellini:

"ove è il fuori che invade lo schermo, il buio della sala che si rovescia nel cono di luce. […] Il film di Fellini è cinema rovesciato, macchina da proiezione che ingoia la platea e macchia da presa che volta le spalle al set [...] Il cinema della distanza che aveva nutrito la nostra giovinezza è capovolto definitivamente nel cinema della vicinanza assoluta. […] Il film di cui ci illudevamo d’essere solo spettatori è la storia della nostra vita”. (Calvino, 1974, p. XXI)

Così nel discorso cinematografico, Fellini articola la poesia alla realtà,  ove il grande punto di riferimento trasformativo è  proprio l'elemento poetico. Questa consapevolezza porta il film fuori dalla realtà storica del dopoguerra, rendendolo una vera metafora della vita umana e, soprattutto, della redenzione. Come accade a  Zampanò, uomo rozzo e glaciale che, solo quando si sveglia e si rende conto dell'importanza di Gelsomina, piange di fronte ad un mare già buio. Dare valore alle persone quando sono vive, questo sembra insegnarci il pianto di Zampanò, dare valore ai sentimenti e al senso umano al quale apparteniamo. L'essere rozzo e violento trova il suo senso umano solo attraverso le lacrime liberatorie, quasi a voler affermare che nel circo della vita i sentimenti sono gli unici che contano. E ogni personaggio del film è vivo simbolo che si incammina verso questo messaggio: Gelsomina incarna la tenerezza, l'ingegnosità, il sentimento dell'amore; il Matto è quella "follia" che si trasforma in visione e saggezza; Zampanò è la forza bruta, la violenza, la bestialità che può essere salvato attraverso il sentimento dell'amore. Questo di Federico Fellini è anche il film preferito da Papa Francesco che, nel 2016, nel corso di una udienza con alcuni circensi del Giubileo dello "Spettacolo Viaggiante", li definì “artigiani della bellezza” e, a conclusione del suo intervento, ricordò il film La strada a sottolineare la tenerezza del personaggio di Gelsomina che, con la sua semplicità, riesce a sciogliere il cuore del rozzo  Zampanò:

"Quando suonavano quella bella musica del film La strada, io ho pensato a quella ragazza che, con la sua umiltà, il suo lavoro itinerante del bello, è riuscita ad ammorbidire il cuore duro di un uomo che aveva dimenticato come si piange. E lei non lo ha saputo, ma ha seminato! Voi seminate questo seme: semi che fanno tanto bene a tanta gente che voi, forse, mai conoscerete" [...] (Perazzolo, 2016)

"La strada" è una sorta di avventura spirituale, è un film che “tratta del sacro, di quel bisogno primitivo e specifico dell'uomo che ci porta ad andare oltre" e in questo senso costituisce una svolta che definisce le caratteristiche essenziali dell'intera poetica felliniana, come profonda riflessione filosofica sulla condizione umana.

 

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Antonella Rita Roscilli: lusitanista, saggista e ricercatrice italiana. In Brasile è vincolata allo IHAC della UFBA-Università Federale di Bahia. Il presente saggio è un estratto dell'originale in portoghese (Cap. I, p. 17-34 O filme 'La strada' de Federico Fellini: do neorrealismo ao “realismo visionário), tratto dal volume Diálogos com Fellini, a cura di Cássia Lopes e Paulo Henrique Alcântara (Artes Cênicas-PPGAC), ed. EDUFBA (Salvador Bahia, 2020), in omaggio al Centenario della nascita di Federico Fellini.