Un ragazzo perso nel bosco cerca la strada per raggiungere la sua destinazione: così si apre L’amante dell’astronauta, film dell’argentino Marco Berger eccezionalmente distribuito in Italia grazie a Circuito Cinema e alla Teodora Film di Cesare Petrillo e Vieri Razzini (a cui il film è dedicato).
Nel nostro Paese la filmografia di Berger è infatti nota soprattutto nei circuiti festivalieri, a quei cinefili o appassionati di film a tematica LGBT che riconoscono ormai in questo autore un cantore di love story omosessuali. Nella fattispecie, con questo suo ottavo lungometraggio diretto in solitaria (numerose sono le sue co-regie e i corti, ma al suo attivo ci sono anche due documentari) il regista esplora l’inizio di un amore, fotografando quel delicato momento che amalgama eccitazione e fragilità, spensieratezza e vulnerabilità.
Pedro (Javier Orán) e Maxi (Lautaro Bettoni) si rincontrano dopo diversi anni in occasione di una vacanza tra amici. Il primo è dichiaratamente gay, il secondo è uscito da poco da una relazione con una ragazza. Ad accomunare i due ragazzi è però un senso di smarrimento – messo ben in evidenza dalla prima scena – che li porta ad iniziare una sorta di balletto verbale ed emotivo, a metà tra gioco e seduzione, tensione erotica e sentimento.
Fingendo di essere una coppia per via di una scommessa persa, i due danno una prima concretizzazione giocosa a un processo iniziato per scherzo, con continue allusioni, ipotesi e doppi sensi con cui il sedicente eterosessuale comincia a stuzzicare Pedro sin dai primi minuti del film. È fin troppo chiaro allo spettatore che questo solleticamento è in fondo l’espressione di una confusione interiore riguardante il proprio orientamento sessuale scatenata dai commenti delle sue ex-fidanzate che gli ripetevano quanto sembrasse gay.
Proprio il conflitto tra sembrare ed essere, tra realtà e apparenza è uno dei temi fondamentali del film, che risulta centrale sin dal primo dialogo tra i due ragazzi e si fa elemento propriamente cinematografico quando il primo bacio a cui assistiamo con trepidazione si rivela una fantasia di Pedro.
Il rapporto tra i due protagonisti si struttura attraverso una serie infinita di metafore e di allegorie, esplicitate attraverso i dialoghi. La parola diventa per Pedro e Maxi strumento di conoscenza reciproca, di messa alla prova dell’altro, di esorcismo delle proprie paure. L’appellativo di “astronauta” del titolo rimanda a questo contesto, sia in quanto termine di auto-determinazione all’interno della comunità gay di lingua spagnola, sia perché rappresenta una figura che esplora territori ignoti. I ragazzi si parlano inventandosi a poco a poco un mondo tutto loro, estremamente auto-riferito.
Ne deriva un’innegabile, eccessiva verbosità del film, che pur contribuendo a far progredire in modo atipico il rapporto tra i due protagonisti, sortisce l’effetto di girare talvolta a vuoto, facendo arenare il discorso (filmico, oltre che verbale) in una prolissità che blocca troppo spesso i personaggi in un loop tardo-adolescenziale. L’eccessiva focalizzazione dei discorsi sul sesso e sull’anatomia genitale, dopo un’iniziale simpatia, sconfina troppe volte in un infantilismo che si può giustificare solo con l’imbarazzo dei protagonisti a riconoscersi reciprocamente attratti.
Il pregio del film di Berger è però quello di delineare con grande delicatezza, seppure con un certo paternalistico compiacimento nient’affatto giudicante, questa coreografia tra due insicurezze che si incontrano. Se dalla prima sequenza appare evidente che uno dei temi cardine della pellicola sia quello dello spaesamento, la regia e la sceneggiatura di Berger lo strutturano in modo leggero, evitando un tono da dramma esistenziale.