Eccessivo, enfatico, fragoroso, come gli amori adolescenziali e le gioventù bruciate. L’amore che non muore di Gilles Lellouche spinge il piede sull’acceleratore e non risparmia nulla, puntando tutto su una storia d’amore semplice come tante e tragica come tante altre. Due giovani innamorati diversi ma profondamente affini, la violenza della provincia, il destino avverso: Lellouche sceglie dei topoi narrativi già ampiamente usati e ne dà una sua raffigurazione personale, sentita, appassionata. Tematicamente riduce all’osso i due poli dell’amore e della violenza e ne fa una rilettura estetica dalle numerose sfaccettature, stili e variazioni.
Nell’Amore che non muore la violenza è la benzina, il vero e unico fattore scatenante degli eventi. Se nella tragedia greca il Fato è una forza ineluttabile che plasma e domina il destino degli uomini, nell’epopea trasandata di Lellouche questa misteriosa e terribile divinità incorporea viene sostituita da forze e debolezze prettamente umane.
L’amore del titolo (presente anche nell’originale L’amour ouf), è una crisalide perpetua, fatta di ricordi luminosi e ombre minacciose: è l’amore adolescenziale di Jacqueline e Clotaire, due giovani in lotta con i tumulti dell’età e le insidie di un mondo di crimine e violenza, dove chi non ha risorse è sospeso in uno stato di sopravvivenza perenne.
“Odio la violenza”, “Non avevo altra scelta”, “Si ha sempre una scelta”: è uno dei primi scambi tra Jackie, ragazza di buona famiglia segnata dalla tragica perdita della madre, e Clotaire, ragazzino di provincia ribelle dedito a scorribande e furtarelli varie. Questa conversazione diventerà il vero nucleo di un film fatto di esplosioni improvvise di luci, rabbia e dolori silenziosi senza punto di arrivo.
Idillio e catastrofe si alternano e si contaminano creando un pastiche di immaginari e suggestioni contrastanti, espresse attraverso composizioni a metà tra il musical e il melodramma, fatte di primi piani concitati e musiche struggenti che, come l’audiocassetta regalata da Clotaire a Jackie, riavvolgono il nastro ed evocano le macerie spettacolari di una storia d’amore che riesce a cavalcare l’onda del tempo, delle assenze e dei dolori.
La Francia degli anni Ottanta scorre in sottofondo alle vicende struggenti dei due protagonisti per poi irrompere con prepotenza nella traiettoria delle loro vite: la criminalità organizzata che ingaggia Clotaire per poi sacrificarlo per salvare il figlio del boss, il tribunale che condanna un ragazzo innocente a dodici anni di reclusione, tutte le istituzioni indifferenti alle esistenze che vivono ai margini e si nutrono della violenza alle quali vengono condannate. Clotaire stesso è imbevuto di quella violenza da cui non riesce a sottrarsi, una violenza che si respira nell’aria, nelle risse clandestine, negli sguardi pieni di disprezzo della gente, nella solitudine e nella brutalità della galera.
Lellouche mette insieme tutti questi elementi attraverso sequenze scenografiche, sopra le righe, dove le luci artificiali trasfigurano gli ambienti e i volti, trasformandoli in quadri espressionisti infiammati dall’elettricità dei corpi che si scontrano, del ferro che brucia, della città brulicante di rabbia che divampa e di vecchi amori ostinati. Le scene notturne sono i momenti più autentici del film: quei momenti in cui Clotaire e Jackie si muovono nel buio; nel buio e nel fragore delle pallottole si perdono per poi ritrovarsi anni dopo, uniti dal filo del telefono, pozze di sangue e punti di sutura.