Due donne, eredi di famiglie benestanti, devono affrontare grandi cambiamenti all’interno e all’esterno della loro relazione sentimentale quando le condizioni economiche peggiorano e sono costrette a mettere in vendita i loro beni. È lo sguardo attraverso una fessura ad aprire Le ereditiere. Quasi un avvertimento: stiamo entrando in un territorio molto privato, intimo. Solo che questo sguardo non è soltanto quello dello spettatore: è la soggettiva della protagonista del film che, nascosta dietro una porta, osserva una donna aggirarsi per la sua sala da pranzo, toccando, soppesando, valutando le sue cose. Chela guarda la sua vita dal di fuori, come se non fosse sua. E il primo lungometraggio di Marcelo Martinessi è appunto il racconto dell’inesorabile presa di coscienza di questo fatto, di questo ritrovarsi estromessa dalla propria vita.

Il film segue i tempi di Chela − una perfetta Ana Brun, miglior attrice alla Berlinale 2018 − mentre gradualmente arriva a comprendere quanto, nonostante la sua compagna Chiquita sia in prigione per truffa (in realtà, per un debito con la banca), la vera prigioniera sia proprio lei: prigioniera di una società dove ancora non è completamente lecito esporsi sessualmente se il proprio orientamento è diverso, prigioniera di una situazione economica precipitata dopo l’esaurimento delle rendite che consentivano alle due donne di mantenere un buon tenore di vita, prigioniera di una coppia in cui è sempre l’altra metà a prendere delle decisioni, a cominciare dalla messa in vendita dei beni che sono però prevalentemente proprietà di Chela. La separazione da Chiquita agisce come un’epifania: realizzare di dover riprendere in mano la propria vita, prendere decisioni, seguire un percorso di ri-affermazione di sé coincide con l’improvvisa assenza dalla quotidianità del suo punto di riferimento, della sua compagna.

In questo re-inventarsi, un po’ per caso un po’ per ricerca di un’ebbrezza perduta, il percorso di Chela si concretizza in un nuovo lavoro: staccare il cartello “Vendesi” dalla propria auto (dalla quale in realtà non voleva affatto separarsi nonostante non abbia la patente) e mettersi al volante per accompagnare anziane donne borghesi ai loro appuntamenti medici o mondani è perfetta metafora di un processo ormai inarrestabile di auto-affermazione. Chela ricomincia a relazionarsi con il mondo esterno, superando una situazione di stasi e di chiusura in cui faticava ad uscire di casa; si mette alla prova sfidando nuovi spazi, sia fisici (l’autostrada su cui non ha mai guidato) sia sentimentali (la figlia della vicina), decidendo di volta in volta, autonomamente, se andare fino in fondo oppure no; si riappropria anche degli spazi della sua dimora, trattando in prima persona con le eventuali acquirenti dei suoi mobili. È significativo in questo contesto il fatto che tutte le chiedano informazioni su qualcosa che non è in vendita, a simboleggiare sia la continua intrusione del mondo esterno nella sua sfera intima, l’insistente richiesta di qualcosa che lei non vuole o non può concedere, sia la necessità (dapprima) e la raggiunta capacità (poi) da parte di Chela di mettere dei paletti per delimitare queste ingerenze.

Le ereditiere − titolo al plurale riferito alla coppia ma rivolto soprattutto a scolpire due singole individualità all’interno di essa − è una meravigliosa e poetica lezione di sguardo. Martinessi osserva un mondo al femminile con pudore e delicatezza: si muove in punta di piedi, si nasconde dietro la sua protagonista lasciando che sia la sua visione del mondo ad offrirsi allo spettatore.