Rapito dal corso del suo ragionamento, un giovane Ludwig Wittgenstein afferma, tra leggerezza e solennità, il volto d’improvviso disteso, come un arco teso per lungo tempo: “Se la gente non facesse qualche volta cose stupide, niente di intelligente sarebbe mai fatto”. Riprendere la battuta iniziale di un’altra pellicola recentemente distribuita da I Wonder Pictures, Wittgenstein di Derek Jarman, potrebbe essere il punto di partenza congeniale a descrivere le turbinose tempeste abbattutesi sulla famiglia protagonista di Leila e i suoi fratelli.

In cima, egoista, innamorato di se stesso e inconsapevolmente fragile, il padre, Esmail. Un despota che, indifferente al compleanno della nipote, in un bellissimo finale pressoché muto, avviluppato nella sua sigaretta, l’aspira come per rafforzare definitivamente un sospetto sgradevole e ripugnante fino ad allora mai interiorizzato. Il viso grigio dell’umiliato, un paio di palpebre pestate dalla luce che brillano illusoriamente dalla finestra.

Poi, i figli, Alireza, Farhad, Parviz e Manouchehr. Ognuno bloccato in un’inestirpabile inoperosità, dapprima nati nell’indifferenza dei genitori, poi adulti ostacolati, oltre che dalle sanzioni degli Stati Uniti, da un mucchio di usi e costumi semidefunti sempre pronti a interferire nella loro vita. Infine, in mezzo alle radici morte, la madre, succube dell’ottusa ambizione del marito, e Leila, la saggia e tragica capofamiglia in pectore che tenta invano di indirizzare i fratelli verso una sicura stabilità economica.

Da una parte simile ad altre eroine struggenti, quali Neeta e Keiko, protagoniste rispettivamente di La stella nascosta (Ritwik Ghatak, 1960) e Quando una donna sale le scale (Mikio Naruse, 1960), Leila viene interpretata non per nulla da Taraneh Alidoosti. Leila, continuamente acciaccata nel fisico nel tentativo di tenerla unita, consapevole ciononostante delle fratture interne alla famiglia e spettatrice tutt’altro che distaccata dei denti di una morsa che stringe da ogni lato. Dall’altra Esmail, coltivatore di un sogno irrealizzabile e di una speranza dai giorni infiniti, vestiti come piccole marionette, con gli ornamenti e i tessuti dell’attesa. Il teatro di guerra, un’umile casa che scotta di febbre, sdraiata anch’essa in un torpido dormiveglia.

Elevata dalla finezza psicologica con cui indaga l’interiorità dei personaggi, nell’ultimo film di Saeed Roustaee ogni azione è un prodotto della disperazione, ogni personaggio è delineato nella sua assurda e paradossale autenticità, qualunque avvenimento si presenti. Che sia una sequela di macchie assorbite da un pavimento silenziosamente bianco, come nel caso di Parviz. O l’impossibilità di dimenticare il sovrapporsi di un gruzzolo di banconote maneggiate senza gentilezza in un centro commerciale (Farhad). O il ripresentarsi di un brontolio cupo, quasi inarticolato, nel rivedere la propria amata, bandita controvoglia dai propri pensieri con pazienza e fatica monumentali (Alireza).

Scavando in un Iran diviso tra tradizione e modernità, alimentato da una scioltezza perfettamente studiata, tipica del grande romanzo famigliare, di Leila e i suoi fratelli si potrebbero citare prologo ed epilogo, sui quali aleggia una circolarità eterna. Riscossosi dal suo stato di inattiva apatia, Esmail, intuendo un’opportunità, porta con sé una camicia bianca, durante un momento di preghiera. Indaffarato a commemorare un patriarca del quale non si narrerà mai la benevolenza, un gruppo di uomini in abiti da lutto accoglie l’uomo, signore dall’aspetto impacciato. Così, miserevole nel suo respiro affannoso, salmodiando stringe quella camicia bianca, non solo il simbolo del possibile ritorno alla normalità, ma anche l’inizio delle negoziazioni. Oltre alla camicia, Esmail, ha con sé anche un minuscolo rasoio, offrendosi peraltro di radere la triste barba del figlio, a sua volta non incline, se non dopo un’attenta e conveniente riflessione, ad accelerare la venuta del successore.

Qualche minuto più tardi, una volta sbarbatosi in autonomia, Esmail rientra, scoprendo il manipolo di cugini vestiti di bianco, cogliendo, nella struttura della comunità, il ghigno sardonico del nuovo patriarca, Ghardashali. Quest’ultimo, fermo oppositore sin dall’inizio dell’eventuale ascesa sociale di Esmail, chiude la porta all’avversario, ancora vestito di nero e imprigionato nell’imbarazzo. Contemporaneamente, Leila, non approdata ad alcuna soluzione poiché trascinata dalla sua ragionevolezza, cosparge una pioggia di lacrime, commiserando il proprio destino, immerso dall’alba dei tempi sempre nelle stesse sofferenze. Distante diversi chilometri sia dall’uno che dall’altra, Alireza, timoroso della prospettiva di una lotta contro il potere fugge prontamente dai disordini sorti dalla chiusura della fabbrica che gli aveva permesso di scappare dal borgo natio.

Come se a ogni ingiustizia ne seguisse un’ulteriore, il tempo si ripete, impedendo a ogni naturale cambiamento di concretizzarsi. Ma è nel finale che la storia di questa “famigliola”, citando il Dostoevskij dei Karamazov, trova il suo compimento. È una sequenza di sbalorditiva compostezza, considerati i fittissimi dialoghi che incalzano il ritmo della pellicola, sconquassata da lotte intestine e altrettanti ripensamenti, in bilico tra un passato di splendori impenetrabili e le ansie per un futuro incerto. Affinché un gioco venga tramandato servono una buona memoria e bravi complici. Che si tratti di un matrimonio (il luogo scelto per la scena madre) o di un compleanno, perché l’inganno regga ogni passo ha la sua precisa punteggiatura.

E se il gioco si chiamasse vita, e l’imprevisto morte? A tal proposito, in presenza di una tragedia, esistono delle accortezze, tacitamente digerite per sopravvivere e per preservare, in molti casi, l’innocenza di chi ignori il significato di una disgrazia. Così la vita continua, tra uno sguardo di quieta solidarietà e la dissimulazione del dolore, tra la dolcezza suadente della neve di primavera e l’implacabilità del fato.

Un film consigliatissimo, nella speranza che il Festival di Cannes, non attribuendogli alcun riconoscimento, non l’abbia condannato inavvertitamente all’oblio.