9 marzo 1945. Dopo una breve e opaca ouverture, l’inquadratura plumbea, brulicante soltanto di presenze diafane con al centro un uomo, sfibrato e seduto e in attesa di chissà quale epifania, figura questa data. La Seconda Guerra Mondiale è ancora in corso, ma in Indocina stava preparandosi qualcos’altro, uno scontro che sfocerà in una nuova guerra, più epidemica e sanguinosa, vissuta tra le viscere dei combattenti: i giapponesi avevano inizialmente disarmato le truppe di De Gaulle, che si erano poi riorganizzate per ottenere di nuovo il controllo della colonia e da una delle feroci rappresaglie delle truppe indipendentiste vietnamite ha inizio la storia del soldato Robert Tassen\Gaspard Ulliel e della sua vendetta.

Se la letteratura e il cinema aprono come degli spiragli, varchi su storie o spaccati d’esistente non conosciuti, mai esplorati nelle loro verità e contraddizioni, e quindi per lo più lasciate ai margini della Storia, obnubilate dai suoi fantasmi, Les confins du monde, presentato durante la scorsa Quinzaine des Réalisateurs a Cannes, incarna proprio questo genere di apertura. Il conflitto di cui Guillaume Nicloux parla è interiore ancora prima che bellico e la guerra in Indocina sembra essere un pretesto, come se la natura, la giungla e vegetazione infide in cui si muovono i soldati ne offuscasse l’orizzonte, smaterializzando anche lo stesso nemico di Tassen, Vo Binh: a vedersi sono soltanto gli esiti delle sue azioni – corpi mozzati, decapitati, vischiosi sulla terra arida, racconti disgustosi sui trattamenti riservati alle vittime – restando la sua una presenza incorporea, quasi mitica.

Nicloux stesso lo spiega benissimo: “La giungla del Nord del Vietnam crea un’atmosfera particolare, la vegetazione provoca un senso di soffocamento che impone agli esseri umani un istinto di sopravvivenza anche se in realtà non sono mai stati così vicini alla morte, una morte che dipende a un nemico che non compare mai, l’invisibilità dei Viet Minh accresce questa paranoia. E questo fa porre una domanda: siamo di fronte a un morto che sembra ancora vivo oppure a una persona ancora viva che però è prossima alla morte”.

C’è poi in Les confins du monde qualcosa di diverso ed estraneo rispetto a certe narrazioni di guerra. Il ritmo non è forsennato, né il montaggio si presta a stacchi fulminei o serrati per suggerire una qualche forma di dinamicità: non c’è impellenza nell’azione e il narrato concede spazio piuttosto ai momenti di intimità, quelli vissuti, ad esempio, tra Tassen e la prostituta, diluendone i confini e vivificandoli.