Nella seconda semifinale, Francia e Croazia si affrontano allo Stade de France. In palio c’è l’accesso all’ultimo atto contro il Brasile di Ronaldo. Trascorrono appena venticinque secondi dall’inizio del secondo tempo quando Davor Suker, attaccante croato del Real Madrid e capocannoniere del Mondiale, elude la marcatura di Bixente Lizarazu, dopo aver raccolto un lungo passaggio di Aljosa Asanovic. Così, dopo aver scavalcato il portiere Fabien Barthez, la sera dell’8 luglio 1998, la Francia padrona di casa rimane sospesa, le gambe tagliate davanti ai televisori e le speranze legate a un filo.
Al contempo, a trecento chilometri di distanza da Saint-Denis, Anthony, le spalle larghe e una palpebra semichiusa che gli impone sempre un’aria imbronciata, osservando i Blues sgretolarsi gradualmente e a centrocampo aprirsi, dopo l’infortunio occorso a Christian Karembeu, voragini inverosimili, non osa neanche più bere. Poi, l’imponderabile.
Un minuto dopo, approfittando senza esitazioni dell’ingenuità di Zvonimir Boban, Lilian Thuram, pur non essendo abituato a scaraventare il pallone in rete, pareggia i conti. Al contempo, in un bar di Heillange, in una terra dimenticata da Dio ai confini del Lussemburgo, tra la rabbia e la fragilità di un microcosmo impreparato ad affrontare la chiusura delle fabbriche e una strisciante disoccupazione, le incomprensioni e le illusioni di benessere bruciate dal vento caldo dell’estate sembrano dissolversi. Lasciando il posto a un oceano di birra sollevato dalla gioia estatica, agli abbracci spontanei, alla felicità.
Anthony, senza rendersene conto, festeggia con un giovane uomo riccio inoltratosi qualche istante prima fino al bancone. Improvvisamente, lo riconosce: è il suo acerrimo nemico. Si chiama Hacine, un altro ragazzo di provincia rassegnato all’idea di deludere il padre, arrivato in Francia dal Marocco sognando l’integrazione. Immediatamente i due, adottando un contegno inusitato, si allontanano, memori di un regolamento di conti in sospeso dal ’92.
Si tratta dell’episodio più buffo in Leurs enfants après eux, ultimo film dei giovanissimi fratelli Ludovic e Zoran Boukherma, in Concorso all’ottantunesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Tratto dal romanzo di Nicolas Mathieu, vincitore nel 2018 del prestigioso Prix Goncourt, E i figli dopo di loro è la cronaca di quattro estati cruciali (1992, 1994, 1996, 1998) nelle vite di Anthony (interpretato da Paul Kircher, premiato con il Mastroianni all’attore emergente), Stéphanie e Hacine.
Alle prese con un materiale narrativo di notevole densità, i gemelli Boukherma, fin dall’inizio intenzionati a restituire un’istantanea sociologica in grado di oltrepassare la cruda documentazione dei fatti, realizzano un curioso Bildungsroman in cui s’intrecciano con meticolosità e furbizia molteplici influenze, passate e recenti. A scanso di equivoci, ha tutta l’apparenza e consistenza di una pellicola già vista, inficiata da una pletora di riferimenti visivi e musicali, il cui compito è fungere da snodo decisivo in alcuni casi, da tagliente cliffhanger in altri.
Sì, riemergono gli adolescenti annoiati e razzisti descritti da Bruno Dumont in L’età inquieta, la prima parte di filmografia di Xavier Dolan, gli sbandati impuniti che scorrazzano nel cult dei brasiliani Fernando Meirelles e Kátia Lund, Città di Dio. Sì, ritornano l’ansia e la tensione del cortometraggio candidato all’Oscar Avant que de tout perdre, diretto da Xavier Legrand e incentrato sul tema della violenza domestica. Eppure, l’epopea dei Boukherma si rivela un racconto vivo, umanissimo e feroce.
Istintivo come il battito del cuore, il film è un melodramma su un’Europa in costante evoluzione non così lontana dall’attuale, frammentario e ribelle, come i prodotti che ambiziosamente desiderano diventare inni generazionali, senza però abbandonare un’evidente perfezione formale – forse, il solo aspetto completamente rigoroso. Attingendo a piene mani nella libertà narrativa concessa dal romanzo di Mathieu – il quale, prima di dedicarsi alla letteratura, ha svolto in persona diversi mestieri mal retribuiti – Leurs enfants après eux è un’opera insieme realistica e inafferrabile.
Come è difficile etichettarla definitivamente, così nella vita quotidiana risulta un’ardua impresa intercettare i bisogni e i disagi dei propri figli. A tal proposito, vale sicuramente la pena ricordare due teneri momenti, che generano altrettanti equivoci, oltre alle relative nefaste conseguenze. Da una parte, il padre di Anthony, Patrick, incarnato da un dolente Gilles Lellouche, il quale ravvisa nel mutismo del figlio una delusione amorosa e non, al contrario, il furto della motocicletta a lui così cara, presa di nascosto dal ragazzo per partecipare a una festa improvvisata in un torrido pomeriggio di nulla.
Dall’altra, il padre di Hacine, fiero di ritenersi un onesto lavoratore. Un uomo che cammina a testa alta senza avvertire l’esigenza di occultare gli scheletri nell’armadio, non sospettando che il figlio sia finito in una schiera di stupidi delinquenti che hanno individuato nella criminalità una via di fuga in assenza di opportunità lavorative. E in mezzo a tutto il presente tumulto, la sinistra bellezza cangiante del lago nero battezzato dai ragazzi come luogo d’incontro. Le sagre di paese, il collante in grado di mantenere in vita una comunità destinata ad affogare al chiaro di luna, trasfigurandosi nel suo stesso fantasma; di rendere possibili incontri prima impossibili, riconciliazioni in cui a prevalere non è l’amore, bensì il sesso, l’unico elemento a nostra disposizione capace di addolcire un addio. Le canzoni della giovinezza, effimera e mutevole come l’aria che respiriamo.
Non esiste un criterio preciso per spiegare le nostre playlist, al giorno d’oggi. Si seleziona una canzone in base a un determinato stato d’animo, e basta. È un fatto viscerale. Per poi riprodurne un’altra, mal assortita. Allo stesso modo, qui passiamo con disinvoltura dalle L7 (Pretend to Be Dead) ai Red Hot Chili Peppers (Under the Bridge), gruppi utilizzati per caricare emotivamente l’amour fou nato tra Anthony e Stéphanie. Ricordandoci sia quello che abbiamo conosciuto, sia ciò che abbiamo preferito lasciar andare. Finché non arriva la terribile certezza di dover confrontarsi con altre cose, chiamate ora responsabilità, ora rimpianti – difficile scordarsi la maschera cerea di Patrick, impotente di fronte alla spigliatezza del figlio, accompagnata dalle note di Samedi soir sur la Terre del cantautore Francis Cabrel.
Leurs enfants après eux è il commiato sorprendente, al pari di un’altra scoperta del Festival, Vermiglio di Maura Delpero, alla gente e ai luoghi di un mondo scomparso, ma non così distante. Dicono che non resterà nella storia del cinema. In tal caso, duole dare una cattiva notizia. Bisognerebbe abbassare le pretese, poiché nemmeno noi resisteremo al corso del tempo. Anche noi perderemo il nostro candore e le nostre forze.
Tuttavia una soluzione resta, nonostante la provvisorietà della cornice in cui siamo involontariamente capitati. Inseguire la libertà a rotta di collo, aggrapparcisi, inconsapevoli di canoni e orologi, confortati dal manifesto scritto da Bruce Springsteen, Born to Run. Siamo di passaggio? Che novità, ma che importa! Ci rimane ancora qualcosa di bello da fare. Possiamo correre insieme!