Licorice Pizza parte subito con Gary e Alana, con il loro incontro. Non c’è nulla prima. Nessuna presentazione, se non quella reciproca, ma pretestuosa (i due sono ogni volta diversi, svolgono lavori disparati, occupazioni nuove, ruoli inediti). Lui è Gary Valentine, ha quindici anni e fa l’attore, mentre lei è Alana Kane, ha 25 anni e fa l’assistente per un fotografo. Questo però non è un film su di loro, ma sulla loro storia, o meglio su tutto ciò che succede nello spazio che li divide e che li unisce.

A riemergere sono infatti le linee che li collegano, gli sguardi reciproci, riflessi in uno specchio, trapassati in un vetro, movimenti opposti che avvicinano o allontanano, mai indipendenti l’uno dall’altra. Il tutto in un mondo immenso che sta attorno, in mezzo, di fianco. Un mondo di adulti impotenti, messi da parte o accolti solo nella loro immaturità (dal proprietario di un ristorante che fa l’imitazione del giapponese a una star del cinema ossessionata con le moto).

Dopo gli anni Sessanta di quella che Alexander Mitscherlich definiva come “società senza padre”, dove la modernità “orizzontale” aveva indebolito l’autorità “verticale” (sia a livello domestico che istituzionale), così gli anni Settanta di Paul Thomas Anderson si muovono esattamente su un territorio privo di figure genitoriali e particolarmente costruito su un’asse orizzontale esteticamente dominante.

In Licorice Pizza, infatti, macchina da presa e personaggi sono tutti a piano terra, ad altezza volto, e si muovono e si spostano solo orizzontalmente, da destra a sinistra, da sinistra a destra, correndo all’impazzata. C’è pochissima profondità di campo (quella che in parte dominava Ubriaco d’amore), così come nessuna verticalità (si pensi a Il filo nascosto), a ribadire che i rapporti di coppia per Paul Thomas Anderson sono sempre una questione di spazi (e di movimenti al loro interno). Le particelle umane si muovono solo sull’asse orizzontale, corrono, fuggono, si inseguono. Così come si susseguono le vicende suddivise in capitoli distinti tra loro, divisi, ma affiancati, in fila, uno dopo l’altro, come lo scorrere delle giornate. Iniziano la mattina e finiscono la sera, come la vita di un giovane, che si consuma all’esterno e si spegne sempre con il varcare la soglia della porta di casa.

E come tali, Licorice Pizza fugge. Fugge, consapevolmente o no, da qualsiasi lettura teorica o spinta analisi critica. Fugge, volontariamente o no, da qualsiasi continuità narrativa, coerenza di  sceneggiatura. Un film dove, come d’abitudine per Paul Thomas Anderson, nulla va oltre la propria essenza (ed esistenza) materiale (come quando Freddie Quell, in The Master, su richiesta di Lancaster Dodd, tocca in continuazione una parete di legno e una finestra non riuscendo mai a percepirne qualcosa “oltre”) e che nella sua precisa e devota fisicità sa creare un mondo che diventa sogno, un sogno che diventa realtà, che diventa cinema.

Tutto trasuda anni Settanta, in un omaggio che è sia jukebox (da Bowie ai Doors) sia rassegna cinematografica (da Lucas di American Graffiti a Robert Altman, come sempre), terzo capitolo di un’ideale trilogia seventies (dopo Boogie Nights - L'altra Hollywood e Vizio di forma) o l’ennesimo capitolo losangelino (ambientato nella San Fernando Valley dell’infanzia del regista) del cinema di Paul Thomas Anderson.

Un regista dal tatto tanto tangibile quanto, proprio nella sua schiettezza, impenetrabile. Un film reale, ma sognante all’infinito. Così come Alana e Gary e i loro frenetici movimenti orizzontali. Due schegge che si allontanano e si avvicinano, aumentando in un momento lo spazio percorribile dal film e riducendolo nel momento immediatamente successivo. Universale, per un secondo. Infinitamente intimo il secondo dopo.