Era forse da Ubriaco d’amore che il destino secondo Paul Thomas Anderson non era qualcosa di così sfacciatamente bello e promettente. E forse, non a caso, com’era per Adam Sandler ed Emily Watson anche in Licorice Pizza c’è una corsa a perdifiato a chiudere il cerchio di una storia d’amore: quella tra Gary (Cooper Hoffman) e Alana (Alana Haim), due calamite attratte verso un’unione inevitabile e che, nello scoprirsi l’uno di fronte all’altra lungo una strada spianata, trovano finalmente il coraggio di guardarsi negli occhi e di lasciarsi andare al loro magnifico destino.

Ce ne sono tantissime di corse belle e ritmate - sulle note dei grandi Settanta musicali - in Licorice Pizza, questo è evidente, ma nel cinema di Paul Thomas Anderson e in questa sua commedia romantica in particolare c’è sempre qualcosa di più, una materia nascosta, che dietro la consistenza di corpi sgraziati e diversi, visi curiosi e sguardi che esplorano e spiano (dietro una porta, attraverso un vetro o uno specchio, sempre con la paura di farsi vedere davvero dall’altro) fa brillare di una luce di speranza tutto il racconto, tra immagini pulsanti di un sentimentalismo magico e commovente.

Per raccontare un amore dolce, ingenuo e sgraziato tra un quindicenne maturo e sicuro di sé e una venticinquenne ironica e pungente Paul Thomas Anderson sceglie ancora la sua amata San Fernando Valley degli anni Settanta - quella della sua infanzia e di tanti suoi film. E lo fa, ancora una volta, non per fare un film auotobiografico ma per mettere sé stesso in una sua opera, guardando a ritroso per trovare l’incanto, in una surrealtà divertente e grandiosa in cui passato e ricordo sono tanto veri quanto lo sono il cinema e la finzione del presente.

L’attrazione conflittuale che da sempre guida i personaggi di Anderson, che necessitano l’uno dell’altro per affermarsi e trovare il loro vero sé (anche a costo di annullarsi o distruggersi), in Licorice Pizza ha esiti sognanti. Non c’è niente di più romantico e tenero di due innamorati che si cercano, così vicini che possono sentire il respiro dell’altro, sfiorarsi e accarezzarsi, ma così impauriti da nascondersi dietro l’imbarazzo, negandosi quando sono insieme per poi cercarsi non appena si separano. “Ma secondo te è normale” - chiede preoccupata Alana alla sorella - “che io stia sempre con Gary e i suoi amici quindicenni?”. A queste e ad altre mille domande di Alana, Anderson risponde con la sua verità cinematografica, affermando che desiderio e realtà possono convivere senza escludersi (“è una battuta o è reale?” dice Alana sinceramente sorpresa all’attore che le racconta storie incredibili).

In un girovagare possibilmente eterno per la periferia di Los Angeles, dove gli spazi non sono misurabili ma sono sempre percorribili e dove tutto è possibile (in fondo siamo alle pendici di Hollywood) Alana e Gary vendono così materassi ad acqua dal nome improbabile, frequentano un discutibile ristorante giapponese e sfrecciano con un camion in retromarcia e a motore spento.

Siamo nel 1973, la realtà è certificata dalla storia (la crisi petrolifera) ma è allo stesso tempo abitata da individui esilaranti, che appaiono come e quando vogliono e sconvolgono l’ordine razionale delle cose, facendo scattare la risata - il primissimo piano su una casting director, l’apparizione mistica sulla collina del parrucchiere malato di sesso, la sfida in moto di un vecchio regista esaltato. Quel divertimento non è però che un contrappeso del dramma, un’esperienza che i due personaggi condividono e che fa prendere forma a un sentimento amoroso che, invece, è decisamente serio.

Con il pensiero fisso, quindi, alla sintesi magnifica di Billy Wilder, Paul Thomas Anderson mette temporaneamente da parte Robert Altman e con Licorice Pizza trova quel senso del cinema sublime, di singoli attimi che fanno esplodere mondi di sentimenti; un cinema di semplicità e fermezza dove i gloriosi piani sequenza ci sono ancora (e non a caso presentano i due protagonisti) ma sono uno strumento tra i tanti con cui fare respirare l’intensità degli interpreti, costante imprescindibile della sua filmografia.

Quella materia nascosta dietro il visibile è allora una profonda nostalgia - verso l’ingenuità dei giovani e con essi del cinema della grandi promesse - che non rivive con citazioni e omaggi ma vive e respira attraverso i suoi personaggi, incarnandosi in qualcosa di nuovo, autentico e pieno di speranza in ogni singola inquadratura. Con un inedito ottimismo di fondo Paul Thomas Anderson sigilla questi sentimenti con un abbraccio, rassicurandoci del fatto che nulla, per chi crede alle illusioni del cinema, potrà mai andare storto.