Documentario atipico su una storia atipica, Little Miss Westie si distingue nel panorama documentaristico sulle questioni di gender sia per la vicenda narrata sia, soprattutto, per il tono con cui la racconta. Il film di Joy Reed e Dan Hunt tratta infatti della normalità di una famiglia di West Haven, nel Connecticut, in cui entrambi i figli stanno attraversando il percorso di ri-attribuzione del genere: Luca, 14 anni, è nato femmina ed è in terapia per sviluppare le caratteristiche maschili; Ren, 9 anni, inizia il processo di transizione per diventare donna. Tutto questo alla vigilia del concorso di bellezza che dà il titolo al film e che è per Ren, come ben chiariscono le parole della madre, l’occasione di esplorare chi diventerà più che chi era o chi è.

La famiglia di Luca e Ren si racconta con tranquillità e naturalezza, condividendo con lo spettatore dubbi e riflessioni che aiutano a orientarsi in questa apparentemente caotica confusione di generi. La strada scelta dai registi evita il compiacimento e l’insistenza sulle difficoltà: non si indugia mai sulle lacrime, non si vuole mai strappare allo spettatore la pietà verso chi patisce sofferenza. Certo, la questione è complicata e il percorso dei protagonisti non è esente da problemi, ma tutto è narrato dalla prospettiva di questi ragazzi che vivono la situazione con estrema naturalezza. Del resto, già a quattro anni Ren chiedeva se poteva essere una femminuccia. Ciò che a prima vista potrebbe sembrare per una famiglia un dramma insormontabile viene raccontato con ironia e umorismo, senza tuttavia sminuire l’importanza dell’argomento.

I genitori considerano la particolarità di avere entrambi i figli transgender come uno strato di difficoltà in più rispetto al classico rapporto genitori/figli, conflittuale a causa della pubertà e dell’adolescenza. All’inizio del film, il racconto del vestito da comprare al cagnolino si risolve in una risata quando la mamma ricorda che proprio i figli la sgridarono perché non voleva comprare un tutù al cane: “Non osare imporre i tuoi cliché di gender al nostro cane! Magari è un cane transessuale!”. Luca e Ren sono totalmente consapevoli di essere transessuali e dell’atipicità della loro realtà familiare, complicata dal desiderio della secondogenita di partecipare come bambina allo stesso concorso di bellezza al quale il fratello aveva partecipato qualche anno prima.

La presenza dei registi è discreta ma emerge con rilevanza non tanto nelle interviste frontali quanto nella costruzione delle scene, della narrazione. Si percepisce la ricerca della corretta modalità di racconto in ogni frangente: degna di fiducia quando i protagonisti parlano direttamente in macchina, stando magari sdraiati sui loro letti; onesta con lo spettatore quando si interviene graficamente nell’inquadratura per riportare i testi dei messaggi che Luca si scambia con una ragazza. Si tratta di una presenza mai invadente: rispettano i limiti che Luca e Ren hanno evidentemente stabilito ma non fingono di non essere coinvolti come filmaker. Il loro è uno sguardo in prima persona che fa sentire lo spettatore accolto all’interno della famiglia. In questo, Reed e Hunt riescono perfettamente a cogliere lo spirito dei personaggi che hanno di fronte e a farne materia per il loro documentario: se la difficoltà dei protagonisti deriva dal timore di non essere accettati dalla società, il film sembra scardinare questo timore facendo sì che sia la famiglia ad essere inclusiva del mondo esterno, accettandone la partecipazione – tramite la macchina da presa - ai viaggi in macchina, alle discussioni, alle sedute delle psicoterapie di gruppo.

Pur dando il dovuto spazio alle difficoltà affrontate dai ragazzi (la depressione di Luca e la sua abitudine di tagliarsi, l’ansia di Ren che non vuole che arrivi la pubertà) e alle ovvie paure dei genitori sul futuro dei figli (specialmente dopo l’elezione di Trump, per il clima di intolleranza che si profila all’orizzonte), il film conquista per la positività che emana da questa famiglia, perfettamente “normale” nella sua eccezionalità.