Figli inascoltati, figli da ritrovare, figli da riconoscere, figli da redimere. Nell'affrontare la Seconda Guerra Mondiale Giorgio Diritti ci aveva già donato un'efficacissima immagine nel miracolo della parola da parte della bimba muta ne L'uomo che verrà. L'attesa per una paterna redenzione dei figli ritorna anche in Lubo e ancora una volta il regista bolognese aggira il thriller con una messa in scena rigorosa che prolunga i tempi per immergerci nella percezione del protagonista.

Lubo Moser è un padre di famiglia jenisch chiamato alle armi nel 1939 dall'esercito svizzero. Mentre in carico i suoi figli vengono rapiti. Lubo diserta, ruba l'identità a un commerciante austriaco e inizia una ricerca che durerà anni, durante i quali farà un altro figlio con una donna, andrà in carcere proprio a causa del furto d'identità e uscito dal carcere dovrà cercare di riconquistarsi anche quest'ultimo figlio.

Lotta vana per un personaggio sfuggente, senza identità, senza nome, la cui missione impossibile è identificare, nominare i suoi figli. Tragico destino di un nomade in un mondo che riconosce solo la propria razza. Lubo non poteva che essere incarnato da Franz Rogowski la cui tipizzazione sembra ormai consolidata dall'inizio della sua collaborazione con Christian Petzold in Transit, ma la cui dedizione e abbandono al personaggio fa risultare ogni volta fresca l'interpretazione. Dopo Great Freedom la prigione si rivela ancora spazio elettivo della sua repressa identità.

Diritti accetta la sfida di ritrarre colui che continuamente si ritrae. Lo fa rispettando i tempi delle sue azioni con lunghi piani sequenza. Si seguono le sue fughe ma anche i suoi attimi di pausa, riflessione, esitazione. Così una storia che forse si confaceva a un'adesione almeno parziale/autoriale al genere del thriller (la suspense per una possibile cattura, la detection per la ricerca dei figli) sfugge dalle convenzioni anche a costo di riempire il film di tempi morti, prolungate attese in cui lo spettatore è più perso che rapito.

Un thriller senza thrilling, i cui twist risultano più improvvisi che dettati dalla struttura narrativa. Dallo stile rigoroso sì, ma anche anti-economico, in pieno contrasto quindi con la tradizione del cinema autoriale europeo. Il grande limite del film è proprio il rapporto con lo spettatore. Rimanendo fedele allo sguardo del protagonista Lubo appare sfuggente ma senza figli, senza eredità, senza spettatori.

Pochi i momenti di attrazione registica, di abbandono alle immagini: la scena iniziale e quella finale, accomunate dalla musica della fisarmonica, un abbandono anche del corpo di Franz alla propria pratica musicale, una paradossale piena adesione all'identità zingara per un personaggio che “voleva nascondersi”. Sradicato suo malgrado, come Ligabue di Elio Germano, la sua vita risulta irrealizzata, irrealizzabile, senza che lui ci possa fare niente, senza che possa redimere i propri figli. Peccato non ci riesca neanche il regista.