Siamo tutti d’accordo nel dire che se si desidera comprendere un poeta si deve entrare nel suo regno, Goethe lo ha messo nero su bianco e Terry Gilliam sembra aver preso alla lettera questo “suggerimento” e addentrandosi nell’universo creato da Cervantes vi è rimasto prigioniero per anni, e molto probabilmente non lo ha del tutto abbandonato. Proprio come Don Chisciotte, in questi giorni Gilliam ha girato l’Italia raccontando le gesta e le imprese eroiche – sì perché in fondo lo sono – che lo hanno visto protagonista insieme alla (alle) troupe, composta, tra i tanti, da alcuni inseparabili compagni, come lo sceneggiatore Tony Grisoni e il direttore della fotografia Nicola “Sancho” Pecorini, così definito nei titoli di coda. Sciagure di ogni genere hanno minacciato la conclusione e l’uscita del film nelle sale ma il risultato finale ripaga la lunga attesa, che non significa altrettanto lunga lavorazione, e il regista ci tiene a sottolinearlo.

Il film più volte ripreso e accantonato non può essere confrontato col lontano Lost in La Mancha (2002), documento prezioso in cui si rievoca e si riflette sul percorso accidentato che avrebbe dovuto portare a un Don Chisciotte forse più simile all’originale, resta una testimonianza di quello che potremmo considerare il primo volume di Gilliam/Cervantes. L’uomo che uccise Don Chisciotte è invece un ideale seguito, il secondo volume dell’epopea donchisciottesca/gilliamesca. Come nella seconda parte del romanzo il protagonista del film, il regista Toby Grisoni (Adam Driver) incontra personaggi che conoscono la prima parte del testo di Cervantes/Gilliam/Toby, una triplice intesa, sono gli attori che anni prima girarono con lui un cortometraggio sul Don Chisciotte, e nel frangente che separa questi due momenti Chisciotte (Jonathan Pryce) ha acquistato la sua realtà: “Lungo grafismo magro come una lettera, eccolo emerso direttamente dallo sbadiglio dei libri. (…) Il libro è più il suo dovere che la sua esistenza. Senza posa deve consultarlo per sapere che fare e che dire e quali segni dare a se stesso e agli altri per mostrare che la sua natura è la stessa del testo dal quale è uscito”. (Michel Foucault, Don Chisciotte in Le parole e le cose, Padova, 2015)

Il Don Chisciotte di Toby, ha imparato la parte e come il protagonista di Cervantes segue pedissequamente la legge dei poemi cavallereschi, questo personaggio non emerge più “dallo sbadiglio dei libri”, la sua entrata in scena è rischiarata dalla luce di un proiettore, ecco il risultato di un’impresa titanica che per anni ha visto alternarsi numerosi registi mossi dalla speranza di poter catturare lo spirito nobile e ardito di Chisciotte, secondo José Ortega Y Gasset “l’unico filosofo spagnolo”. Alle sue spalle scorgiamo una riproduzione de Il Colosso, dipinto attribuito a Goya, l’apparizione del gigante richiama le imprese eroiche del cavaliere, questa figura minacciosa sembra provenire dalle tavole de I Capricci dello stesso Goya, “il sonno della ragione genera mostri” è riportato in una delle acqueforti, sono questi i mostri contro i quali si scaglia, non dubitando della propria vocazione e delle proprie forze fisiche affronta giganti, maghi e oppressori, restando sempre fedele a un ideale di cui ne fa un’involontaria, ma feroce, parodia: “È suo compito rifare l’epopea, ma in senso inverso: questa narrava (pretendeva narrare) gesta reali, promesse alla memoria; Don Chisciotte invece deve colmare con la realtà i segni senza contenuto della narrazione”.

Don Chisciotte, consapevole della ragione della propria esistenza, incarna la fede nella giustizia, nonostante l’incessante ricerca della verità sia ostacolata da una fervida immaginazione che lo fa apparire completamente pazzo, non può in alcun modo venir meno alle proprie convinzioni; “la sua avventura sarà una decifrazione del mondo: un percorso minuzioso per rilevare sull’intera superficie della terra le figure che mostrano che i libri dicono il vero”. Gilliam si serve delle allucinazioni del suo cavaliere errante per dare vita a un racconto picaresco d’altri tempi che affonda le proprie radici in una contemporaneità caotica e contraddittoria dove uomini potenti privi di scrupoli, amanti del lusso sfrenato e cafone, dettano legge in nome dei loro più biechi interessi, decretando la morte della morale donchisciottesca.