C’è chi dice 20, chi 25, chi addirittura 29. In ogni caso sono troppi gli anni che Terry Gilliam ha dovuto attendere per vedere realizzarsi il suo progetto. Un progetto che è l’adattamento di un romanzo fondamentale per lui, che lo ha forgiato, che oggi non sarebbe lo stesso senza. Un progetto che nel corso di questi anni per una serie di impedimenti non decolla mai, colpi di sfortuna uno dietro l’altro talmente insopportabili che viene fatto un documentario sulla sua disastrosa impresa (Lost in La Mancha). Ma Gilliam ci prova e riprova, tentativo dopo tentativo, fallimento dopo fallimento. E ora finalmente ce l’ha fatta. Probabilmente in questo momento è il regista più felice del mondo.

Dopo tanto patire, L’uomo che uccise Don Chisciotte giunge finalmente in sala. E, sorpresa, non è materiale di cui bisogna parlar bene a prescindere per lodarne lo sforzo. Fondendo Don Chisciotte di Miguel de Cervantes con Un americano alla corte di Re Artù di Mark Twain, Gilliam sostituisce il paradosso temporale dell’uomo contemporaneo scaraventato nel passato tratto dal romanzo di Twain (strada che inizialmente favoriva), con l’incontro/scontro tra un regista presuntuoso e un vecchio che crede di essere Don Chisciotte. Gilliam dona al suo regista - un Adam Driver nella sua miglior performance - un’epifania felliniana che lo riporta nei luoghi in cui 10 anni prima aveva girato un cortometraggio su Don Chisciotte, il tutto mentre questi cerca di superare un blocco creativo durante la lavorazione di un orrido spot… a tema Don Chisciotte.

Dopo questo inizio che guarda a , Driver rincontra il vecchio che interpretò il cavaliere errante nel suo primo lavoro ma questi è impazzito, non è mai uscito dal ruolo ed è diventato un fenomeno da freak show, chiuso in una stanza a ripetere le proprie battute guardando il corto di cui è protagonista proiettato su un lenzuolo. Quest’uomo vive parlando con le immagini cristallizzate di una realtà che non c’è più, finché l’incantesimo di questa surreale caverna di Platone non viene infranto dalla presenza di Driver. Squarciando il lenzuolo (ed entrando nel film che stiamo per vedere), egli si fa realtà d’immagine agli occhi del vecchio, il quale infatti lo scambia per il suo Sancho Panza e da lì inizia un’avventura dove il picaresco incontra il western e Driver si ritrova suo malgrado ad assecondare l’ostinazione votata alla follia di un Jonathan Pryce straordinario.

In un gioco autoreferenziale che se solo Gilliam avesse davvero girato in gioventù un corto su Don Chisciotte sarebbe davvero il massimo, Driver e Pryce diventano le due facce dell’animo tormentato di Gilliam alle prese con il progetto stesso. Da una parte il regista bloccato che non riesce a portare a termine il lavoro e dall’altra il sognatore delirante che vive in un mondo di fantasia; la volontà di portare a termine una missione pur assecondando la testardaggine di inseguire un sogno impossibile. Tutto è facilmente riconducibile alla frustrazione che deve aver provato Gilliam nel riuscire a portare a termine L’uomo che uccise Don Chisciotte, divenendo lui stesso agli occhi di molti “la più triste figura che sia apparsa sulla Terra, cavalier senza paura di una solitaria guerra”.

Una tenacia che, meno male, ha portato a risultati mirabili. Nel peregrinare allucinato dell’improbabile coppia Driver-Pryce (simili ad un altro duo donchisciottesco del cinema di Gilliam: Jeff Bridges e Robin Williams ne La leggenda del re pescatore) tutto è legato alla pazzia di voler rivivere le avventure di Don Chisciotte, una pazzia contagiosa e immortale. Ma qui più che mai la coincidenza delle circostanze gioca un ruolo fondamentale per aumentare lo straniamento, nostro e dei protagonisti. Tutto è molto controllato (aspetto inusuale per Gilliam) e coerente. C’è sì la sovrapposizione tra sogno e realtà, visioni che tradiscono la veridicità dei fatti, ma c’è anche una solidità di contesto che permette la creazione di tali allucinazioni e il loro ingigantirsi. Uno stato confusionale che, com’è ormai consuetudine dal 1998, Gilliam decide di affidare ancora una volta alle lenti deformanti di Nicola Pecorini. E il risultato è un Paura e delirio a Las Vegas senza la giustificazione delle droghe.

L’uomo che uccise Don Chisciotte è il film che attendevamo da troppo tempo e che ormai non speravamo più di vedere, figuriamoci di parlarne pure bene. Chissà che ora, alla veneranda età di 78 anni, Gilliam non decida di ritirarsi e trasformarlo nel suo testamento, come ha fatto Hayao Miyazaki con il suo Si alza il vento. Dovesse farlo, sarebbe un finale di carriera grandioso.