Se oggi, quando parliamo di cinema messicano, in particolare quello di respiro e di successo internazionale, pensiamo al famoso trio composto da Cuarón, Iñárritu e Del Toro in parte è anche grazie a quell’ideale “passaggio di dogana” che gli è stato concesso e celebrato negli Stati Uniti con le rispettive nomination e vittore dei premi Oscar. Bisogna però sapere che il primo ad aver attraversato questo ideale ponte “cine-geografico” è stato proprio Roberto Gavaldón: il primo ad aver portato, nel 1961, un film messicano tra i nominati all’Oscar a miglior film straniero (nella cinquina insieme a nomi come Clouzot, Pontecorvo e Bergman), proprio con il suo Macario.

È molto probabile che il punto di partenza di questo successo internazionale sia stato determinato dal forte legame che questo film intrattiene con l’aspetto più “esportabile” della cultura popolare messicana. Infatti Morte in Vacanza parte proprio dalle immagini della celebrazione del Giorno dei morti come elemento di facciata, come una maschera che anticipa un grande tema, una fiaba popolare (tratta da B. Traven), ma anche un pretesto per raccontare i divari sociali. Il protagonista, Macario, padre di una povera famiglia contadina, fatica a sfamare i figli, mentre nel frattempo grandi famiglie altolocate si possono permettere ricchi piatti da offrire anche ai morti.

Mangiano più i ricchi morti che i poveri vivi. Questa è la tesi dissacrante di partenza, così come viene mostrata in un primo incubo surreale a suon di marionette dove lo stesso protagonista sembra guardare dall’alto un banchetto di scheletri, in parte desideroso di partecipare, in parte inquieto per l’ingiustizia. Eppure quel suo partecipare dall’alto, come un burattinaio, anticipa un evento chiave. Quando finalmente riesce ad avere un tacchino intero da mangiare viene messo alla prova dal Diavolo, da Dio e dalla Morte. E nel momento in cui, di buon cuore, decide di dividere il tacchino con la Morte, riceve il potere di scoprire il destino di vita o di morte di qualsiasi persona e, qualora possibile, di salvare chiunque da qualsiasi malattia.

Come vuole il suo aspetto più fiabesco ed elementare (che quindi ambisce ad essere storia educativa e faro morale) il film mette alla prova il suo protagonista, le sue priorità etiche, il suo candore umano, ma anche la stabilità sociale del mondo che lo circonda. Il realismo magico spesso fa anche questo, si pone dei what if surreali. Allora la risposta arriva immediata: un imprenditore approfitta del potere per arricchirsi e far arricchire il protagonista, mentre l’Inquisizione lo condanna per eresia. Il potere economico lo sfrutta, quello religioso lo giudica e quello politico lo mette di fronte a un bivio: se può essergli di aiuto lo salverà, al contrario lo condannerà.

Ovviamente qualsiasi cosa è di intralcio per la purezza del protagonista – portavoce di un’innocente saggezza popolare di fondo – sia l’arricchimento che l’impoverimento, il successo e la latitanza. Quello che conta è la semplicità e l’altruismo (il faro morale, per l’appunto). Eppure ogni potere donato sa anche essere una lezione sui limiti dell’uomo di fronte all’esistenza. E quest’ultima per Gavaldón – che con questo film ha fatto molto industria, nel suo fare popolare (con tratti di comicità quasi slapstick) e nel suo dispiego di mezzi semplici ma grandiosi – è una grande grotta infinita, piena di candele, in cui prendere atto della propria irrilevanza nei confronti dell’universo, in cui provare a cambiare qualcosa senza riuscirci, se non nella memoria tramandata, nella lezione di vita.