Tornare a parlare di Mad Max: Fury Road di George Miller non è solo un piacere ma è doveroso dopo che il sondaggio condotto all’interno della nostra redazione lo ha incoronato film migliore del decennio 2010-2019. Ho amato questo capolavoro (sì, lo so che il termine è ormai abusato ma in questo caso di capolavoro si tratta) dal giorno in cui per la prima volta mi esplose davanti agli occhi in tutto il suo dinamico, brutale ed incredibile furore. Correva l’anno 2015, un’annata clamorosa per il cinema mainstream: Inside Out, Star Wars: Il risveglio della Forza, Jurassic World, Avengers: Age of Ultron e Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte 2 sono tutti usciti quell’anno. In mezzo a tutto ciò Mad Max: Fury Road arrivò da noi il 14 maggio e non somigliava a niente.

Era sì qualcosa di riconducibile all’ondata di remake/reboot/sequel che ci avrebbe fatto compagnia fino alla fine del decennio (e chissà quanto ancora durerà), ma attenzione: salvo rari casi (tipo Prometheus di Ridley Scott) queste operazioni partono sempre da vertici aziendali per puntare sulla nostalgia e fare un mucchio di soldi campando di rendita solo sul nome, non nascono da intuizioni narrative da parte di chi per primo ci ha raccontato quelle storie. Anzi, spesso questi ultimi non vengono quasi neanche coinvolti, tant’è che Robert Zemeckis ha più volte ribadito: “Il remake di Ritorno al futuro non accadrà mai finché campo!”. Invece nel 2015 laddove si passò da George Lucas a J. J. Abrams per continuare Star Wars e da Steven Spielberg a Colin Trevorrow per Jurassic World, con Mad Max: Fury Road è Miller in persona che torna al timone di una saga da lui stesso iniziata nel 1979 con Mad Max (da noi Interceptor) e proseguita nel 1981 con Mad Max 2 - The Road Warrior (da noi Interceptor - Il guerriero della strada) e nel 1985 con Mad Max Beyond Thunderdome (da noi Mad Max oltre la sfera del tuono). Una trilogia che è base, fondamento, caposaldo essenziale di un intero immaginario di fantascienza post-apocalittica e post-atomica, al quale in seguito svariate opere (tra cinema, televisione e fumetto) avrebbero attinto.

Ricordo lo stupore che provai nell’accogliere la notizia dell’arrivo di un nuovo capitolo della saga. Non tanto per Tom Hardy al posto di Mel Gibson, più che altro perché l’ultima volta che ebbi notizie di Miller era il 2006, quando vinse l’Oscar con Happy Feet. Sì, avete letto bene: dietro quell’animazione per famiglie con pinguini danzanti c’era lui. E non finisce qui: non solo nel 2011 avrebbe girato il sequel, Happy Feet 2, ma anni prima, nel 1995, scrisse e produsse Babe maialino coraggioso e nel 1998 ne diresse il sequel Babe va in città. Dal post-apocalittico ai maiali parlanti, poi ai pinguini danzanti e poi di nuovo al post-apocalittico. Abbastanza sorprendente, no? L’immagine che avevo di Miller era pertanto quella di un simpatico signore, un tempo giovane incendiario, che oggi mette la firma su divertimenti da invernali pomeriggi in poltrona, da vedere coi nipotini vicino al caminetto. Uno che difficilmente, tornando sui suoi passi, avrebbe ritrovato la fiamma che lo animava in gioventù. E invece mi sbagliavo di grosso.

Ricordo che fin da subito Mad Max: Fury Road mi parve una sintesi clamorosa del momento storico che stavamo vivendo: se con i Novanta e i Duemila il post-apocalittico era fuori tempo massimo, il 2015, tra crisi economica e fondamentalismi (era l’anno degli attentati dell’ISIS a Parigi), era il momento perfetto per farlo riemergere prepotentemente dalle viscere degli anni Ottanta. Era quasi come se Miller ci stesse dicendo che un giorno tutto ciò ci porterà ad un Medioevo post-atomico, in cui dalla terra non crescerà più nulla, le risorse saranno a dir poco scarse e l’uomo sarà lupo per l’altro uomo. Terreno fertile per i leviatani che fanno leva su ignoranza e disperazione per creare eserciti di seguaci/discepoli promettendo loro di tutto, dalla ricchezza in vita alla gloria nel Valhalla. Esattamente ciò che fa Immortan Joe con i Figli della Guerra.

Questo vecchio malato grinzoso (vediamo chiaramente la pelle piena di tumori fuoriuscirgli dall’armatura), talmente pieno di sé da esigere musica quando va in battaglia (e se gli eserciti settecenteschi di Barry Lyndon avevano i trombettieri, chi può privarlo di percussionisti scatenati con pazzo munito di chitarra elettrica a seguito?), che fa di tutto per non sembrare la carcassa in putrefazione che è (camuffa la maschera per l’ossigeno in bocca sciamanica, disegna sull’armatura gli addominali, insemina donne incontaminate sperando di dare alla luce figli sani), rappresenta i responsabili ultimi delle derive del mondo, il passato che deve morire affinché l’umanità abbia nuovamente un futuro. Tale chance di salvezza è rappresentata dalle donne in quanto portatrici sia della possibilità di ridare vita al genere umano, sia dei semi delle piante. Il ventre delle donne è il centro della Terra, mentre il pene flaccido, reazionario e patriarcale di Immortan Joe ne è il funerale. Ma non vi è traccia di didascalie pacchiane o retorica da quattro soldi: i personaggi sono quello che fanno. Ecco perché l’Imperatrice Furiosa di Charlize Theron è un’eroina femminile (e per certi versi femminista) come non se ne vedevano da tempo.

Ricordo con dispiacere le poco lusinghiere parole di Paolo Mereghetti: “Più che un film è un videogioco, la storia non esiste, questo non è cinema”; di Goffredo Fofi: “Balordaggine assordante, roboante, frenetica e ripetitiva, che rintrona e stanca” e di Massimo Bertarelli: “Da denuncia per inquinamento acustico, piacerà solo agli appassionati, gli altri si addormentano” (lungimirante, non trovate?). Ma ricordo anche con piacere quelle entusiaste di Joe Dante: “Mad Max: Fury Road dovrebbe essere sottotitolato: regista di 70 anni mostra a questi giovani sbruffoni come si fa!”.

Ed effettivamente è da qui, da queste lapidarie parole che bisognerebbe partire, perché la verità è che non si vedeva da tempo qualcosa come Mad Max: Fury Road. Da anni ormai il cinema d’azione, quello supereroistico e certa fantascienza ci avevano abituati a linguaggi standardizzati, ripetitivi, sia nella scrittura epico-narrativa che nelle forme di rappresentazione. Mad Max: Fury Road dal canto suo è praticamente un film muto. I pochi dialoghi sono inversamente proporzionali all’orgia visiva, dentro la quale c’è di tutto: dal western di John Ford alle scenografie di Fritz Lang fino agli inseguimenti cartooneschi e deliranti di Chuck Jones. Il ritmo frenetico ed esasperato crea un amalgama caotico di sangue e gasolio, carne e metallo, ossa e bulloni, sudore e benzina. Tutto il film è un enorme animale cibernetico che corre nel deserto. I veicoli sono prolungamenti dei corpi, hanno la medesima importanza scenica e narrativa dei personaggi. Persino la blindocisterna ad un certo punto sembra prima trattenere il fiato per non far entrare sabbia nelle condutture, e poi una volta fuori pericolo tirare una gran boccata a pieni polmoni. Tutto è vivo.

Dopo anni di ralenti gratuiti il film opta per un’accelerazione frastornante ma dall’incredibile simmetria; non lavora sullo svisceramento del dettaglio dandoci il tempo di immergerci nell’universo di ogni inquadratura, ma procede per accumulazione, bombardandoci al punto che due occhi non bastano. Il cervello assimila una quantità di dati enorme ma siccome tutto è centrato con una precisione maniacale non c’è niente di confuso. È, per certi versi, l’anti Michael Bay. L’anti Zack Snyder. E sul versante degli inseguimenti su quattro ruote è il punto d’arrivo che Justin Lin ha cercato di raggiungere per anni con Fast & Furious. Ammiratelo!

Ricordo che per me fu indubbiamente Mad Max: Fury Road il vero trionfatore della notte degli Oscar 2016 con le sue sei statuette portate a casa. Tutti Oscar tecnici ovviamente (montaggio, sonoro, montaggio sonoro, scenografia, costumi, trucco) perché, come osservò al tempo Gianni Canova, guai a premiarlo come miglior film, che ne sarebbe del sempiterno snobismo dell’Academy verso il cinema di genere?

Ma ricordo, infine, la spettacolare proiezione in Piazza Maggiore a Bologna nel 2016, sullo schermo più grande d’Europa, durante la rassegna Sotto le stelle del Cinema curata dalla Cineteca di Bologna; proiezione introdotta dal direttore di questa rivista, il nostro direttore, Roy Menarini, che non a caso paragonò brillantemente lo stordimento con cui si esce dalla sala dopo la visione del film a quella di un dopo-concerto, in quanto “Miller lo ha concepito come una sorta di continuo live, […] un sanguinoso rave party su strada, una specie di spettacolo del Cirque du Soleil in salsa post-hardcore”.

E non lo so, sarà che su Mario Monicelli ho fatto la tesi di laurea, sarà che al tempo erano passati solo cinque anni dalla sua morte, o sarà che semplicemente è sempre nel mio cuore, ma in quello “Sperare è sbagliato” che Max rivolge a Furiosa dopo la fuga spericolata dalla cittadella, a fronte di cosa decidono di fare dopo, al tempo rividi tantissimo quel “La speranza è una trappola inventata dai padroni, da chi vi dice di tornare a casa e pregare, avrete la vostra ricompensa nell’aldilà” che il maestro rivolse alle telecamere di Michele Santoro durante Raiperunanotte, otto mesi prima di morire. Se tu hai speranza, Furiosa, fai né più né meno lo stesso errore dei Figli della Guerra che obbediscono ad un pazzo e muoiono come kamikaze sperando di ottenere la beatitudine eterna promessa dal potere. Ecco perché Max non ti dirà mai che sperare è giusto. Ma al tempo stesso non ti abbandonerà lungo la fury road.

Capolavoro dei nostri tempi, Mad Max: Fury Road ha l’enorme merito di ricordarci di cosa è capace il cinema. Ce lo siamo dimenticati a furia di mancanza di fantasia, spiegoni non richiesti, boriosità opprimenti. Tutta roba che hanno pure avuto il coraggio di spacciarci per fresca, nuova, pimpante, giovane. Sì, giovane. Poi un settantenne si alza dalla poltrona, spegne il caminetto, bacia in fronte i nipotini, una carezza al pinguino, un’altra al maialino, esce di casa e fa vedere a tutti cosa vuol dire essere veramente giovani.

Non so chi sarà il Mad Max: Fury Road di questi imminenti anni Venti del 2000, ma sono pronto a scommettere che la partita si giocherà nuovamente sul terreno in cui riescono a incontrarsi, con mirabile equilibrio, da una parte il meglio del cinema popolare e commerciale e dall’altra una mano autoriale forte, decisa e libera; con buona pace sia di coloro che snobbano a prescindere tutto ciò e si credono gli eredi di inserire un maestro a caso (e magari lo sono pure ma poi il loro film lo vanno a vedere in quattro), sia degli ottimi mestieranti che scalciano per introdurre un briciolo di personalità in operazioni molto più grandi di loro, in cui non è previsto il minimo deragliamento dai binari decisi dall’azienda madre.

Buon decennio cinematografico a tutti e a tutte. E che il prossimo film del decennio possa portarci nuovamente ad esclamare: “What a day, what a lovely day”.