Partiamo da una premessa di contesto. Quest’anno è stato un anno chiave per il cinema horror. Ce lo si poteva aspettare. Sulla carta doveva essere il banco di prova per i quattro autori più rilevanti di quello che ormai viene definito prestige horror (o elevated horror) – Jordan Peele, Robert Eggers, Alex Garland e Ari Aster - giunti tutti e quattro alla loro terza regia (rispettivamente: Nope, The Northman e Men, mentre il progetto di Aster uscirà il prossimo anno).

Tutti e quattro annoverati come “padri” del prestige horror (si veda un recente saggio di Kristin Thompson), un filone che si riconosce come tale forse più per valori produttivi che artistici. Molti di loro infatti si sono staccati dal genere, ribaltandolo radicalmente o percorrendo strade totalmente diverse (Garland addirittura si è sempre confrontato con la fantascienza, lasciando all’horror piccole ibridazioni e dettagli interni, almeno fino a questo suo ultimo film). Ed è proprio qui il punto. Il ruolo di Garland in questa “scuola”.

Se quello di Peele, stando a questi quattro nomi, è il cinema che più si confonde e confronta con l’horror mainstream commerciale, mentre i film di Eggers e Aster sono quelli più riscontrabili all’idea di prestige horror che la critica sta costruendo, è proprio il cinema di Alex Garland a confermarsi outsider per eccellenza, più estremo, sfuggente, più sabotatore… e questo suo ultimo film Men ne è la riprova.

Il film inizia con una donna (Jessie Buckley) che dalla finestra del suo appartamento, in una Londra rossissima, vede il marito cadere dal piano superiore. Poi la campagna, verdissima, dove si rifugia. Il lutto da processare, i sensi di colpa, le motivazioni. Inoltre – a conferma che Garland non ha rinunciato alle sue location stranianti e agli spazi che sono sempre più spazi della mente (il laboratorio di Ex Machina, l’Area X di Annientamento e il bunker-laboratorio di Devs) – in questo paese tutti gli uomini hanno lo stesso volto (quello di Rory Kinnear). Sono soggetti disparati (un poliziotto, un prete, un bambino…), stereotipi di mascolinità diversi, che in un modo o nell’altro cercano di assediare l’isolamento messo in campo dalla protagonista.

Men, già dal suo titolo (che comunque, nel suo facile utilizzo, la dice lunga sullo stato della rappresentazione del maschio contemporaneo) palesa da subito le sue intenzioni. Ed è vero, come sostiene parte della critica, che il discorso “di genere” appare instradato, servito, semplificato. Al contempo, però, va detto, è anche ri-mediato da un particolare disinteresse che lo vede come punto di partenza, ma non come punto di arrivo. Pensiamoci. Le reazioni della protagonista, che rimane intatta e inalterata, l’indifferenza di fondo, il pericolo che si ribalta, trasudano un’ulteriore e quasi misteriosa, o addirittura invisibile, consapevolezza. Difficile da vedere.

Questo perché Alex Garland è un sabotatore. Il suo cinema lo è. Per l’appunto il più outsider dei quattro registi citati in precedenza. L’unico che dall’horror non è partito, ma ci è arrivato. Con un film che sabota la sua stessa storia, che disinnesca il sistema di attese e aspettative narrative, con delle implosioni estetiche (si pensi allo spaesamento finale di Annientamento, che con questo film condivide altrettanto un confronto con una figura umana a metà tra minaccioso e salvifico, sconosciuta e familiare).

In Men è il continuo generarsi e rigenerarsi. È il riprodursi di un trauma che passa da generico a specifico, da uomo a marito, prendendo la questione politica trattata e privatizzandola. Singolarizzandola all’infinito. Come di fatto Garland ha fatto con la sua filmografia. Decidendo ancora di rimanere tra i più nascosti, come la protagonista. Tra i più isolati e incompresi.