Non ha slabbri e non ha vertigine, simula compromessi che poi risolve in sintonie, non ha accensioni né contrasti forti oltre la superficie, eppure non sembra possa esistere un cinema più giusto, più corretto e più preciso per entrare in connessione con le urgenze del nostro tempo: Minari era il vero film da Oscar di quest’anno, non perché destinato a vincerlo o perché pensato per poterlo fare, ma perché il più risolto come racconto, il più riconciliato con i suoi assunti e ugualmente il meno incline a problematizzare il mondo e le sue fibrillazioni.

In una stagione cinematografica impegnata come non mai a mettere in crisi convinzioni e assiologie, determinata a prendere di petto gli irrisolti storici e le fiammeggianti questioni politiche della contemporaneità senza creare degli altrove di finzione o senza adottare simboli e metafore, Minari non trova in sé né sintomi né cause, non ha la forza e forse neppure i mezzi per farlo, semplicemente non sente il bisogno di darne conto. Se Nomadland è cultura dell’introiezione e insieme struggimento e poetica dei luoghi, se altri film candidati come Il processo ai Chicago 7 o Judas and the Black Messiah sono autopsie dei rancori e delle ingiustizie dell’America di ieri e oggi, il film di Lee Isaac Chung è qualcosa di meno stratificato e comunque più vicino al miglior cinema possibile, quello della semplicità estrema.

Il che significa lavorare sui prototipi, ragionare per formule fisse in modo che l’accessibilità al racconto raggiunga il suo grado massimo e a chi guarda sia affidato il compito di estrinsecare senso, intenzione, sguardo. E’ il principio per cui si dà un’orlatura pop al grande tema, così che l’estrapolazione di un eventuale doppio fondo sia un procedimento solo successivo rispetto al coinvolgimento simpatetico, di natura fondamentalmente circostanziale. E’ un tipo di cinema dove le effervescenze diventano tensioni, dove l’immediatezza del sentire rivela drammi e portati insostenibili, dove insomma ciò che sembra facile nasconde gli interrogativi e le emergenze del topos di riferimento. Lo fanno per esempio Gran Torino col razzismo, First Man con l’elaborazione del lutto o Captain Fantastic col rapporto tra libera scelta e anticonformismo: la forma è classica, priva di cerebralismi e dispersioni, capace allo stesso tempo di rassicurare e coibentare il pubblico, mentre il messaggio è incendiario e maneggiato con propositi tutt’altro che consolatori.

Minari non ha quest’ambizione altissima di dare del tu al proprio argomento, per quanto importante esso sia, e di farlo senza perdere in profondità, perché la semplicità è propagginata in senso orizzontale e non verticale; la sua spontaneità di intenti e sentimenti non ha sottotesto e assolutizza ogni discorso. Nelle vicende di una famiglia di origini sud-coreane che si trasferisce dalla California alla sperduta campagna dell’Arkansas per cercare fortuna con l’agricoltura c’è molto di quel cinema moderno che dialoga con l’integrazione tra culture e con l’accettazione e il collocamento sociale dello straniero, eppure qui tutto è una scusa per fare un grande, classico film sulla crescita. L’intrusione nel cuore dell’America retrograda, l’inserimento nelle dinamiche della comunità locale, il confronto coi “bifolchi”, il rapporto tra i magisteri del presente e i valori identitari del passato: ogni spunto non va oltre l’inequivocabilità della sua rappresentazione e ogni pretesto non supera l’essenzialità palese della sua chiamata in causa.

In una storia di adattamento al nuovo, di piccoli stranieri cresciuti nel nuovo mondo col peso delle tradizioni del vecchio, insomma in un racconto dove si giunge nell’America peggiore con lo scopo di coltivare verdura coreana ma si finisce soprattutto per tirare su una nuova generazione e con essa la propria ideologia, frutto di impasti culturali e transizioni geografiche, la sensibilità è quella tipica dello sguardo orientale ma il film è totalmente hollywoodiano. Non come adozione ma proprio come pensiero, come gesto.

Le questioni sociali e culturali sono una spruzzata di contesto, uno spiraglio rispetto all’orizzonte possibile, mentre il cuore di Minari è la formazione del piccolo David: dagli screzi tra mamma e papà alle difficoltà economiche, dai problemi cardiaci alle frizioni con la nonna, ultima figura di un passato che merita sempre di essere onorato e in definitiva straordinario personaggio, David cresce e si fortifica come il minari, l’erba coreana capace di germogliare in ogni luogo. Lee Isaac Chung rilegge il suo vissuto senza farne una questione di dibattito politico, senza usarla dunque come occasione per l’invettiva sociale o anche solo per accusare le reticenze dei nordamericani verso gli stranieri; il regista guarda il se stesso bambino con la delicatezza di chi rimpiange quei momenti irripetibili e con l’ingenuità di chi vuole poterli riattraversare con la magia del racconto. Tutto molto essenziale, tutto molto semplice, forse troppo, ma in fin dei conti tutto maledettamente giusto.