Osservando il San Sebastiano di Guido Reni, sembra che le frecce conficcate sul corpo vergine del martire vi siano poste in realtà per ornamento e decoro, quasi non volessero rovinare col sangue la levigatezza della sua pelle, restando così quiete e delicate in un momento in cui alla sofferenza si sostituisce il piacere e al dolore l'estasi. Trattandosi di un trapasso fulmineo, il confine tra queste due condizioni è impercettibile e gli stati d'animo s'intersecano, rendendo difficile classificare il tipo di rappresentazione: distante dalle raffigurazioni passate, l'iconografia del Reni rende l'ambiguità di quest'anima ancorata alla terra e l'impeto soprasensibile del suo sguardo, ispirando una quantità innumerevole di artisti e letterati. Yukio Mishima è uno di questi, dimostrando il carattere anticonvenzionale del suo rapporto con l'arte e la vita – tra cui cercherà sempre di trovare un'armonia – fin dal suo primo incontro con l'opera del pittore bolognese.

Lo scrittore giapponese avrebbe raccontato quello che potremmo definire il turning point della sua vita nel romanzo autobiografico Confessioni di una maschera, parentesi che Paul Schrader intravede come essenziale nell'indefinito (e infinito) delle implicazioni culturali e artistiche di Mishima, riportandola con le parole e la lontananza della macchina da presa in tutta la sua urgenza e goffaggine giovanile. Prodotto da George Lucas e Francis Ford Coppola, Mishima – Una vita in quattro capitoli è senza dubbio il progetto più originale e immaginifico del cineasta americano, scandito in quattro momenti, quattro drammatizzazioni dei principali romanzi di Mishima: i capitoli, intitolati Bellezza, Arte e Azione sono il flemmatico preludio all'ultimo atto del film e della vita dello scrittore, la raggiunta anelata armonia fin dal primo contatto con il martire cristiano.

Nelle mani di Schrader, Mishima è un compendio d'erotismo, bisogno autodistruttivo, sadomasochismo e romanticismo decadente, ossessionato dall'inviolabile culto della parola, da un'ideale di bellezza e giovinezza eterna che lo rendono non dissimile dal Gustav Aschenbach di Thomas Mann, per cui Tadzio altro non ne è che l'incarnazione sia nel corpo che nell'anima. E l'orizzonte contemplato da Mishima alla fine è lo stesso che fa da sfondo agli ultimi istanti di vita di Gustav.

Tutto questo magma di idee e suggestioni è per Schrader il materiale per orchestrare una messa in scena claustrofobica e angusta, ma oltremodo seducente nella forma, nell'uso che viene fatto dei colori, tra il bianco e nero con cui s'incornicia il passato e i toni sgargianti, quasi iperrealistici delle figurazioni dei romanzi: la fotografia di John Bailey delinea i contorni e riempie gli spazi di inquadrature che ricordano Henri Rousseau e la pittura surrealista resa maggiormente dinamica dal minimalismo eclettico di Philip Glass alla colonna sonora e Mishima – Una vita in quattro capitoli è in questo senso cinema e teatro, luogo in cui arte e azione convergono. In un quadro simile, lo scrittore e il regista sono i voyeur per eccellenza, studiano e spiano la realtà in modo tale che l'osservazione divenga la loro sola condizione d'esistenza, ma poi si arriva a un momento in cui si è stufi di guardare: a metà del secondo atto, Mishima si fa fotografare, nudo come Pasolini nella villa di Chia, mostrandosi con il corpo visto attraverso l'obiettivo della macchina fotografica (e da presa), posseduto da un occhio esterno, il nostro e subendo lui stesso la tortura dell'osservazione.