Aharon e Uri: padre e figlio in fuga dalla prospettiva dell’enorme cambiamento che il sopraggiungere dell’età adulta del ragazzo autistico sta per portare nelle loro vite. 

Noi due, l’ultimo lungometraggio di Nir Bergman, segue questi due protagonisti in un momento chiave della loro esistenza: pare infatti giunto il tempo per Uri (Noam Imber) di abbandonare la casa dove ha sempre vissuto con il padre ed entrare in un centro specializzato per ragazzi con disabilità. Almeno questo è ciò che sostiene la madre, che spinge affinché il figlio si apra all’integrazione sociale. Aharon (Shai Avivi) ritiene invece che il giovane non sia pronto: sebbene l’età biologica di Uri sia infatti di vent’anni, a causa del suo disturbo egli è mentalmente ancora un bambino, legato in modo ossessivo a una quotidianità che si ripete quasi identica, fatta di stelline di pasta, piccole escursioni in treno o in bicicletta e rituali d’addormentamento davanti all’acquario.

Se è evidente che per Uri il padre è il sostegno fondamentale, l’analisi psicologica che il regista israeliano conduce in questo film fa emergere l’altra faccia della medaglia, ovvero che anche il figlio è il pilastro sul quale si regge l’intera esistenza del padre. Aharon ha infatti abbandonato il lavoro per dedicarsi al ragazzo a tempo pieno, sacrificando molto probabilmente anche il rapporto con l’ex-moglie. Gradualmente nella pellicola il rapporto tra i due uomini si tinge, seppur in modo non eccessivamente drammatico, di un accento totalizzante, quasi claustrofobico: sebbene Uri rifiuti l’idea di una nuova casa, è proprio Aharon a spaventarsi al pensiero di doversi reinventare, in quanto comprende di essersi totalmente annullato come persona per essere soltanto il padre di Uri.

L’improvvisato piano di fuga (negli Stati Uniti!) è dunque l’estremo tentativo di ribellione a un destino della cui inevitabilità Aharon stesso è in fondo consapevole, e le tappe del viaggio che padre e figlio iniziano ad affrontare lo portano proprio a confrontarsi con persone e realtà che da un canto lo pongono in relazione al suo sé passato (l’incontro con il fratello o con l’amica), dall’altro lo fanno riflettere sul lato simbiotico del suo rapporto con Uri.

Questo contraltare interiore del viaggio fisico che i due protagonisti intraprendono è descritto dal regista con grande dolcezza: l’equilibrio tra la serietà delle tematiche (l’autismo, il passaggio all’età adulta, il rapporto tra padri e figli – aspetto fondamentale nella cultura israeliana) e la leggerezza del tono (si badi: non superficialità) è un tratto caratteristico di quella parte delle filmografia di Bergman (Intimate Grammar, Broken Wings) rivolta all’analisi psicologica, tema caro al regista che infatti l’ha esplorato anche nella serialità, con l’ideazione della pluripremiata e pluriadattata BeTipul (in Italia, In treatment, con Sergio Castellitto).

Tenendo presente tale equilibrio, appare giustificato non soltanto a livello drammaturgico ma anche a livello cinefilo il continuo omaggio a Charlie Chaplin e in particolare al Monello, il film preferito di Uri: come Charlot si prende cura del monello crescendo a sua volta come uomo, così Aharon accompagna Uri verso l’età adulta. In fondo, però, è proprio il suo il coming of age di cui ci parla Bergman. È suo lo sguardo che domina il film, uno sguardo carico di amore e attenzione, che il regista mette in scena attraverso l’uso di soggettive dirette e indirette (spesso, soprattutto nella prima parte del film, filtrate, ostacolate, indirizzate da aperture, riflessi, specchi, soglie di varie tipologie che separano il padre dal figlio) o di inquadrature ravvicinate girate con camera a spalla che, isolando Aharon dallo spazio circostante, ne rendono lo stato confusionale di spaesamento.

Si pensi alla sequenza in cui Aharon perde di vista Uri (tappa obbligata di ogni road-movie in cui un protagonista è responsabile dell’altro) per poi ritrovarlo, dopo lunghi attimi di smarrimento, mentre balla Gloria di Umberto Tozzi. Noi due, in selezione ufficiale a Cannes nel 2020 e solo ora nelle sale italiane, è dunque un film poetico che con delicatezza mostra la complessità del rapporto genitori/figli, soprattutto la difficoltà per un padre di lasciare andare il proprio figlio nel mondo, oltre la soglia del proprio abbraccio protettivo.