La visione di Notre corps, ultimo documentario di Claire Simon distribuito sulla piattaforma MUBI, è una visione impegnativa. Non solo per la sua durata importante di ben 165 minuti, ma soprattutto per quello che quei 165 minuti contengono. Una marea di corpi alle prese con la vita, con la malattia e con la prospettiva della morte: tre concetti così ampi e aleatori, prede facili di fumosi discorsi filosofici e di vaneggiamenti notturni, presentati nella loro ordinaria e insopportabile concretezza.

Simon avvicina la macchina da prese, e con lei il nostro sguardo, su vita, malattia e morte, che da nozioni lontane in cui sguazziamo senza pensarci diventano oggetti che riusciamo a catturare col nostro sguardo, che siamo capaci di seguire nella loro evoluzione clinica ed emotiva. 

Siamo nell’ospedale Tenon di Parigi, dove si trovano tutti i dipartimenti di ginecologia: ci entriamo insieme alla regista, che entra nella struttura insieme a una troupe di donne. Così vita, malattia e morte da concetti monolitici diventano pluralità: non si parla di un’unica vita, di un’unica malattia e di un’unica morte perché non è possibile farlo, non esistono nella realtà. Si parla di molteplici vite, segnate da diverse malattie caratterizzate da infinite variabili, e di tanti, troppi, modi per morire.

Vita, malattia, morte nella loro pluralità e specificità: ogni esperienza raccontata da Simon è segnata da tipi specifici di gioie, di sofferenze, di violenze e di abusi, ma rientrano tutte nel grande racconto del corpo femminile. Così la scelta di avvicinare lo sguardo, di enfatizzare i dettagli delle singole esperienze concrete per poi riunirle in un grande mosaico di corpi femminili assume una dimensione politica: una dimensione intuibile anche dal titolo: Notre corps, il nostro corpo, fatto di singole individualità che si identificano come donne e in quanto tali affrontano le loro specifiche battaglie.

Una ragazza minorenne che vuole abortire, una donna che racconta delle difficoltà di vivere l’amore e la sessualità soffrendo di endometriosi, una coppia che decide di ricorrere alla fecondazione assistita, un’adolescente che intraprende la terapia ormonale per il cambio di sesso: queste sono solo alcune delle storie che Claire Simon decide di seguire con la sua macchina da presa.

E lo fa lasciando a ciascuna lo spazio di spiegarsi, di mostrare le forme che assume all’interno del contesto ospedaliero: lunghi colloqui coi medici, spiegazioni di termini clinici astrusi, riprese di operazioni chirurgiche e di parti naturali e cesarei. E insieme ai corpi delle donne la loro voce, libera di descrivere ciò che sentono e di denunciare gli abusi subiti da coloro che avrebbero dovuto prendersene cura, in spazi che dovrebbero essere sicuri.

Notre corps agisce sui limiti del documentario e li espande, registrando la vita dei diversi corpi femminili che osserva con tutto il loro carico di narrazioni. Le storie di questi corpi sono raccontate dalle loro ferite, dai sintomi riportati sulla cartella medica, dalla quantità di sofferenza a cui hanno assistito e che hanno subito, ma non solo: quello che viene messo in luce da Simon sono i nodi che uniscono le esperienze uniche delle singole donne e il sistema entro cui vengono iscritte. La sofferenza femminile è un tipo di dolore che non può prescindere dalla dimensione sociale e collettiva. 

Una dimensione collettiva che si declina in termini sia gerarchici che di orizzontalità. Sul primo fronte il femminile viene considerato un simbolo, un terreno di battaglia ideologico che nella sua astrattezza è di tutti e di nessuno. Un corpo che appartiene a tutti e su cui tutti possono rivendicare diritti, tranne la donna stessa, alla quale vengono preclusi gli strumenti di conoscenza per prendersene.

Come riappropriarsi del proprio corpo, rivendicando il diritto alla cura in un’ottica di autodeterminazione? La risposta a questa domanda non può essere individuale: davanti a una costruzione sociale così condivisa è necessaria una reazione collettiva delle donne che oppongono a questa narrazione la realtà materiale dei loro corpi. Questa è la comunità enorme e non organizzata che Claire Simon mette insieme: ogni storia seguita dalla macchina da presa della regista è un frammento che, cucito insieme agli altri in una sorta di decoupage della resistenza, mostra un mosaico di corpi alle prese con la vita in tutta la sua nudità.

Questa dimensione collettiva si riassume nel momento in cui lo sguardo della macchina da presa cambia e si posa su Claire Simon: durante le riprese del documentario la regista scopre di avere tre noduli tra il seno e l’ascella. La regista decide di riprendere il momento in cui le viene data la diagnosi, come racconta in un’intervista per Io donna: "È stato grazie agli incontri con le donne del Tenon che, pur nella durezza di quell’istante, ho trovato la forza di reagire. Se non avessi filmato le altre, visto con i miei occhi la loro vita, sarei stata perduta. E invece, a quel punto è risultato chiarissimo: ero una donna tra le donne. E non ero sola. Se c’è una cosa che credo di aver capito girando Notre corps, è l’importanza del racconto, perché il cinema ci permette di vedere gli altri, e le nostre somiglianze. Ora ne sono pienamente consapevole, il film ci guida lungo quell’unica linea che ci collega tutti, dalla nascita alla morte".

Notre corps è un percorso che va dal macroscopico al microscopico, dal guardare al guardarsi, dall’essere testimoni all’essere soggetti: attraverso questo movimento che attraversa territori poco esplorati di intimità e di fragilità, intesse un racconto del corpo capace di narrare e di testimoniare la propria vulnerabilità: ed è proprio in quel terreno di bellezza e fragilità che Simon riesce a scovare un’immagine monumentale del corpo femminile, con le sue lotte, i suoi desideri e le sue scelte.