Nel corso della scorsa edizione del Cinema Ritrovato abbiamo potuto vedere Spencer Tracy nel ruolo di un magnate delle ferrovie in Potenza e gloria (1933) di William K. Howard, film che raccontava, con più di un punto in comune con Orson Welles e il suo Citizen Kane, l'ascesa vertiginosa e la caduta rovinosa del "selfmade man" protagonista. Quest'anno nella sezione dedicata alle riscoperte della Fox Corporation ritroviamo Tracy in un ruolo molto simile. In Now I'll Tell (1934), unica regia dello sceneggiatore Edwin J Burke, l'attore interpreta infatti un boss del gioco d'azzardo ispirato a Arnold Rothstein, celebre malavitoso newyorkese specializzato appunto nelle scommesse e nel controllo del gioco e delle bische clandestine, morto in circostanze misteriose nel 1928 quando il suo potere iniziava a mostrare le prime crepe; una figura in qualche modo "mitologica" che ispirò anche Francis Scott Fitzgerald per il personaggio di Meyer Wolfsheim ne Il grande Gatsby.

In parte fedele alla biografia del personaggio e in parte molto libero nella reinterpretazione, Burke mette in secondo piano le attività più dichiaratamente criminali, brutali e mafiose del personaggio, solo accennate, e preferisce concentrarsi sull'ossessione patologica verso il gioco d'azzardo e sul graduale smarrimento di sé dovuto alle vertigini date dal potere e dalla ricchezza. Now I'll Tell è infatti il racconto di un uomo man mano che la narrazione avanza sempre più malato e ossessionato e sempre meno in grado di capire la realtà, se non attraverso rimpianti e sensi di colpa che verso il finale diventano laceranti; è una vittima della propria concezione di sé e del mondo, una figura verso la quale è facile provare pietà, se non pure empatizzare.

L'umanizzazione di questa simpatica e tormentata canaglia allontana il film di Burke dai coevi gangster movie, dove anche nei casi più ambigui, problematici e stratificati c'era una condanna netta e un distacco che impediva l'empatia. Now I'll Tell è semmai una parabola morale che, facendo leva sull'umanizzazione, pare voler mettere in guardia dagli eccessi e dagli effetti collaterali dei miti del "selfmade man" e della felicità come diritto garantito, due cardini assoluti della cultura statunitense. Può infatti tranquillamente essere letto anche come un apologo sul capitalismo "puro", un'epopea che racconta con la stessa chiarezza sia le vertigini dell'ascesa sia i tracolli della caduta. Esattamente come lo fu l'anno precedente il già citato  Potenza e gloria. Complessivamente il film di Burke è inferiore a quello di Howard, ma ad ogni modo funziona per la robustezza della narrazione e per la capacità di gestire i vari toni – compresi i ben dosati e non invadenti momenti da commedia - e le varie ottiche da cui è osservato il protagonista. Decisiva è l'interpretazione di Spencer Tracy, su cui il film è evidentemente costruito, bravissimo nel gestire le sfumature di un personaggio costantemente a metà strada tra l'essere una brava persona malata e ossessionata e una canaglia consapevole, diviso tra entusiasmo e smarrimento, tra cinismo e consapevolezza, tra euforia e sofferenza.