Passeggero della notte, sospirando di sollievo e afflizione insieme, il giovane Daniel, ascoltando il vento violaceo entrare e indietreggiare davanti al treno illuminato in corsa, riflette in silenzio sul suo primo bacio, frutto di una domenica in campagna. Con la laboriosa fissità di sguardo propria della testa in grado di contenere un concetto solo per volta, consuma con un rapido passo insospettabile una sigaretta accesa svogliatamente.
Non ha ancora capito bene come sia fatto il mondo, però ci sta provando. Su tutto aleggia un vago ricordo della casa della sua infanzia. Se ne separerà o continuerà a tenerlo stretto per mano? Improvvisamente, una donna esce dallo scompartimento alle sue spalle. Gli occhi ribelli del ragazzo presagiscono lo scopo del breve soggiorno in corridoio. Nessuna pausa imbarazzata nella conversazione, nessuna necessità di mascherare la sua inesperienza. Quasi praticando un commercio clandestino, anticipa l’accendino di lei, venendole in soccorso con la sua stessa sigaretta mozzicata.
Abbandonandosi alla mancanza di prudenza, in definitiva abbandonati i messaggi segreti, le due sigarette, con emozione e stupore riempiono l’annosa carenza di avventure strapazzandosi senza limiti. Annullati sogni febbrili e il tormento dell’anima, esiste solo il desiderio. La sigaretta si accende. Provando una simpatia autentica, la donna sorride al ragazzo, felice. Nonostante l’ora tarda, questo consolante attimo gli fa dimenticare ogni precedente afflizione. Stavolta non il dolore, ma un’eccitazione gioiosa lo terrà desto fino all’alba. Più incendiaria l’immaginazione, maggiore sarà la metamorfosi, catartica, adulta.
Trascorre un anno. In una terra distante migliaia di chilometri, Renko, un’adolescente, appena pochi minuti prima piena di eloquenza, non inciampando in nessuna parola nell’esposizione di un tema agli attoniti compagni di classe, si estrania dal cosmo turbinoso originato dallo scoccare delle vacanze. Mentre il suo maestro sbuffa frettolosamente nel tentativo di riportare ordine in un gruppo di studenti la cui unica aspirazione è mandarlo al diavolo, Renko, tranquillamente indifferente alla loro frenesia, sembra interessata a un luogo magico accessibile solo a lei.
Attorniata dalla luce indefinita del mattino inaugurato dalle migliori intenzioni, danza giravoltando come una fiera creatura, consapevole di aver superato le esplosioni di collera e i bronci che riservava a sua madre quando ce l’aveva con lei. Un’anziana signora, forse un’amica di famiglia, colorato il panorama col chiarore del parasole, la saluta. “Dove vai?”, le domanda cordialmente. La ragazza sa già la risposta. Altrettanto gentile e naturale come se rispettasse una consuetudine, le dice, indicato il cielo non influenzato dal clima né dalla geografia, “Verso il futuro”.
Infine, senza perder un grammo di entusiasmo nei confronti dell’incertezza e del mistero, oltrepassato un marciapiede chiazzato di girasoli, al di là del quale i genitori chiacchierano affettuosamente, Renko, in una sorta di trionfo, si accanisce sull’avvenire, uscendone ulteriormente cambiata. Indossando gli abiti di un’amica prima derisa a causa del divorzio dei genitori. Un’altra metamorfosi. A un anno di distanza dalla riscoperta di Mes petites amoureuses di Jean Eustache, Venezia Classici riporta alla luce un’altra figlia unica che tenta di aprirsi la sua strada, che incontra l’ignoto cercando la forza indispensabile per continuare ad affrontarlo.
Diretto da Shinji Somai, Ohikkoshi – letteralmente “in movimento” – parla di Renko. Una brillante, energica ragazza d’undici anni di Kyoto che frequenta la prima media. Quando il padre Kenichi se ne va, Renko e la madre Nazuna cominciano a vivere da sole. Nazuna stabilisce alcune nuove regole di vita, ma Renko non capisce perché la madre voglia imporle una Costituzione da seguire pedissequamente. Così Renko nasconde i documenti del divorzio, si barrica in casa e arriva persino ad ideare e organizzare una breve escursione al lago Biwa, dove quando erano uniti trascorrevano le vacanze di famiglia.
Presente nella sezione Un Certain Regard, durante il Festival di Cannes 1993, Ohikkoshi è una meditazione straordinariamente suggestiva sull’infanzia. Incentrato sulla crescita emotiva di una ragazza sensibile, si rivela un racconto peculiare sia per il valore di profondo affresco su un’età inquieta che per l’adozione d’una formula narrativa deliberatamente surreale che le conferisce l’andamento di un manifesto liberatorio. Da una parte, osservando la locandina, sorprenderà lo sguardo della protagonista. Imbalsamata tra l’imbarazzo malcelato di non poter disporre di una vita più concessa da un’unione scientifica tra le leggi probabilistiche e inconfutabili massime biologiche che da un amore originato da un appuntamento e una pura costernazione. Quale, perché così presto? Difatti, ai margini dell’immagine, due mani invisibili, però familiari, combattono per assicurarsi affetto, ammirazione della figlia stupita.
Dall’altra, sorprenderà lo sguardo della protagonista in una scena di apertura paradossale. Il padre, incantato dalla dolcezza soave di una pioggerella che, caduta per gioco, raddoppia, anziché ingannare la noia, incassa gli implacabili rimproveri della bambina, posizionata a centro tavola, già abituata alla sbadataggine dell’uomo, incurante di conseguenze o responsabilità. “Che cos’è quello sguardo?”, chiederà la madre, in un momento di gran sconvolgimento. Un litigio in casa. Segue una trattativa, iniziata dall’ostinato mutismo unilateralmente dichiarato dalla figlia, rifugiatasi in un bagno impersonale, simile al villaggio timoroso dell’apparizione di un plotone di lupi nei paraggi. Il silenzio, mantenuto con testardaggine, comporta un vantaggio sui nemici. Forse, ci sarà una tregua. Finché non sopraggiunge una così chiara domanda.
Nel corso di una perlustrazione, sarà una curiosità difficile da frenare ad apparecchiare la trappola, non la perfidia d’un soldato. “Perché mi avete concepito?”, si sente dire. A questo punto, annunciandosi con il vigore maligno d’una catastrofe imprevedibile, un pugno infrange il vetro della porta. La madre, trasferendo tutto il suo risentimento nel braccio destro, sogna di sfogarsi a suon di calci e schiaffi. Finché, impossibilitata a scagliarsi addosso alla figlia, non le porrà la domanda sopracitata. È lo sguardo di una bambina che avanza cercando la perduta armonia, l’atmosfera di eterno presente dov’era possibile abbandonarsi, dimenticare leggi, non invecchiare. Finché, come una furia malinconica, la bellezza dei ricordi interiori, raggianti, sconfigge rabbia e frustrazioni insignificanti.
Se i figli non possono scegliersi i genitori, come possono uscirne? Come detto dal compianto Somai nel presentare la pellicola, accettare noi stessi non significa chiederci perché i nostri genitori ci abbiano messo al mondo. Che ci piaccia o no, dobbiamo trovare il nostro posto nel mondo in cui siamo nati, non potendo evitar di confrontarsi con noi stessi. Il mondo distrugge le persone. L’importante è non portar con sé i rimpianti, ma correre incontro al futuro, dopo essersi perdonati.