Bizzarro! È nel silenzio che le persone acquistano una maggior presenza. Hend Sabri è un’attrice tunisina. Nonostante il suo nome possa apparire a una prima lettura alquanto oscuro, sconosciuto, in patria è una star. Quando ha conosciuto la regista Kaouther Ben Hania (L’uomo che vendette la sua pelle), non immaginava che un giorno avrebbe condiviso la ribalta insieme alla collega Natalie Portman, ugualmente protagonista di un’altra pellicola in cui si mescolano, alternando esiti sorprendenti e disturbanti, un fatto realmente avvenuto e la sua ricostruzione drammaturgica.

Sia Quattro figlie sia May December, diretto da Todd Haynes, oltre a contendersi la Palma d’Oro durante il Festival di Cannes 2023, curiosamente, sono stati entrambi presenti, a loro modo valorizzati dall’Academy, all’ultima edizione dei Premi Oscar. Il primo, inserito nella cinquina dei documentari. Il secondo, quasi passato inosservato, riconosciuto per la sua sceneggiatura. Ad ogni modo, la stessa Hend Sabri, intuendo la portata del primo traumatico impatto con la storia da interpretare, dimentica di essere una celebrità, immersa nella penombra di una stanza all’improvviso diventata un set.

Come a suo tempo Delphine Seyrig, da una parte formidabile attrice, dall’altra femminista radicale nella Parigi degli anni Sessanta e Settanta che, chiamata da Chantal Akerman, si calò con una naturalezza in grado di sconcertare (tale da donare alla sua eroina un’identità indelebile) nei panni della casalinga Jeanne Dielman.

Hend Sabri, i lisci capelli pettinati dall’acconciatrice, un ultimo tocco di rossetto, si riscopre agitata al pensiero di incontrare dal vivo una donna che ha deciso di raccontare la sua vicenda, ancora una volta in tono risoluto, sorgendo con l’ostinazione della ragazza ribelle che picchiava ogni uomo che le si avvicinasse. Almeno fino alla comparsa di colui che, dopo aver eluso sorveglianza e fortezza, fece breccia nel suo cuore. Si chiama Olfa, non soffre di alcun timore reverenziale.

Ne ha passate tante, e non sarà un’artista a destabilizzarla. “Quindi mi sto preoccupando più io che lei”, confida alla sua assistente. Aggiungendo un ironico poscritto: “Bizzarro”. Seppur schiacciata a più riprese dal peso delle tradizioni e della società, Olfa Hamrouni è una donna straordinaria. Simbolo di resistenza nel suo passato di sovversiva e certificazione dello status quo nel presente, si rivela una figura potente sin dal primo istante.

Dapprima ne ripercorriamo la parabola di ragazza che ascolta, vede, si rende conto, s’arrabbia. Gli orrori e le ingiustizie perpetrate dall’animo codardo di un esercito di maschi apatici o accanitamente crudeli la toccano profondamente. Con rara e lodevole costanza, allenandosi col solo fine di proteggere madre e sorelle, rimuovendo de facto l’eredità di un uomo negligente, rivela un’intransigenza sia ferrea sia “ultramoderna” nei confronti del patriarcato, menando senz’esitazioni il marito durante la prima notte di nozze.

Kaouther Ben Hania, ingaggiando Hend Sabri, intavola con sapienza quest’emblematico episodio, in grado di restituire, sotto le parvenze di un’indifesa mansuetudine, tutta la furia di una donna che, sfidando una Storia senza cambiamenti, non demorde dai propri convincimenti. Applicando il suo inalienabile e rivoluzionario ius primae noctis. In una comunità che affibbia al consenso i difetti dell’impedimento è più semplice sollevare un lenzuolo cosparso di sangue reputandolo il risultato della perdita della verginità anziché il prodotto di un incredibile sovvertimento della consuetudine. Siamo di fronte a una vicenda assurda e paradossale.

Eppure, questo è solo uno degli esempi, inaspettatamente divertenti, attraverso cui è possibile presentare la forza dell’affresco politico descritto in Quattro figlie, considerato irragionevolmente da diversi specialisti un mero esperimento, privilegiando un’analisi dedicata all’aspetto formale e compositivo della sua struttura. Addirittura accusato di travalicare una serie di confini definiti “etici”, al contrario dimostra di meritare una ben più approfondita indagine e un interesse ben più espansivo. Difatti, la premessa è risaputa.

Tuttavia, nonostante un’introduzione ai limiti del predeterminismo – Olfa, madre di quattro figlie, lontane dalle dolci primavere della remota infanzia: le minori, Eya (2003) e Tayssir (2005), rimaste al suo fianco; le maggiori, Ghofrane (1998) e Rahma (1999), impersonate rispettivamente dalle attrici Ichraq Matar e Nour Karoui, svanite nel nulla, “divorate dal lupo” –, Quattro figlie non offre l’ennesima pedissequa intervista a una famiglia distrutta dall’implacabilità dello Stato Islamico.

Semmai rappresenta una testimonianza emozionante, spaventosa e ingovernabile, come la vita degli esseri umani, scritta per gioco dal destino, inconoscibile, per ingannare la noia delle sere piovose. Un grande romanzo dotato di un occhio chiaro, comprensivo, che fonde severità e dolcezza nella sua lettura dei nostri tempi, pur svolgendosi in un ambiente diviso tra il fervido impegno della luce faticosamente insinuatasi tra i visi raggianti delle donne e l’ironia acre delle ombre difficili da eliminare.

Se, da una parte, scostante e contradditoria è la direttrice dell’orchestra – Olfa, rocambolescamente, si manifesta sia nelle vesti di donna intemerata sia nelle sembianze di devota timorosa di commettere peccato discutendo con Hend Sabri e le sue giovani figlie di libertà sessuale o emancipazione femminile –, saldi si rivelano, dall’altra, musiciste e strumenti. Le figlie hanno già trovato la loro verità interiore.

Mettendo in discussione dogmi e antichi imperativi che hanno influenzato alcuni degli eventi fondamentali vissuti dalla madre. Ridendo ad alta voce alla luce del sole. Sbeffeggiando a più riprese la cosiddetta legge morale. Affermando, al culmine di una riflessione maturata autonomamente e consapevolmente, “il corpo è mio, decido io”. Richiamando alla memoria i sit-in e i concerti improvvisati di fronte al Palazzo della Giustizia dell’intrepida Pomme in uno dei capolavori di Agnès Varda, L’une chante, l’autre pas (1977).

Senza mai nominare esplicitamente l’aborto, a differenza di ciò che avviene in quest’ultimo, pur appartenendo a due universi distanti, la sostanza del messaggio di Eya e Tayssir è la medesima. Infatti, come dichiarato da Ben Hania, se Olfa fosse rimasta sola, ci avrebbe propinato nuovamente la stessa storia, lo stesso cliché. Sono le domande su dettagli specifici e motivazioni alla base di una serie di determinate scelte, accompagnando lo svolgimento dei fatti accaduti, a rendere il documentario un’opera “brechtiana” – il binomio recitare/riflettere; in tal senso, evidente l’impronta di capolavori del genere quali Close Up (Abbas Kiarostami, 1990) e F come Falso (Orson Welles, 1975).

Sono le domande a renderlo un imprevedibile strumento di lotta al patriarcato, perseguita da giovani ragazze a cui è stata donata infine l’occasione di confessare alla madre tutte le cose mai dette prima. Intraprendendo insieme un viaggio intimo e catartico attraverso gli orrendi traumi all’epoca inflitti a Olfa e tramandati gradualmente alle figlie. I bambini ci guardano, ma il riferimento non corre al film di Vittorio De Sica, bensì alla struggente immagine finale, improvvisa come la cognizione del dolore.

Contemporaneamente, volgendo lo sguardo a un panorama gremito di uomini ridicoli incarnati dal medesimo attore (Majd Mastoura), come se la strada verso l’indipendenza fosse lastricata di cattive intenzioni, come se il futuro potesse nascere solo da una rottura violenta con il passato. Bizzarro!