A sessant’anni dal suo arrivo nei cinema, Fino all’ultimo respiro mantiene il potere di stupire. Come Urlo in poesia e Like A Rolling Stone in musica, il film di Jean-Luc Godard si colloca tra quelle opere che, alla loro uscita, dettero vita ad una rivoluzione. Se analizzato partendo dal contenuto, Fino all’ultimo respiro trova origine in una storia di matrice noir dove i protagonisti, Michel (Jean-Paul Belmondo) e Patricia (Jean Seberg), incarnano l’archetipo del gangster e della femme fatale. All’apparente semplicità del racconto (ideato da François Truffaut) si contrappone una regia che sovverte la tradizionale grammatica cinematografica per mezzo di raccordi intenzionalmente sbagliati, tagli improvvisi, e una lunga sequenza in cui la diegesi si arresta, focalizzando lo sguardo della macchina da presa sui personaggi. È una delle scene più analizzate di Fino all’ultimo respiro, in cui il rapporto causa/effetto che caratterizzava i personaggi nella narrazione classica si dissolve.

La sequenza è ambientata in una camera dell’hotel de Suède, dove Michel e Patricia avviano un discorso che va a toccare amore, filosofia e letteratura. Gli scambi tra i due non sono tradotti per mezzo del tradizionale campo e controcampo, ma attraverso inquadrature in cui Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo appaiono simultaneamente dalla stessa prospettiva. Godard incoraggiò gli attori ad estraniarsi dai personaggi e liberarsi degli artifici, così da rendere la scena estremamente spontanea. Nonostante lo spettatore sia consapevole di assistere ad un film – Godard d’altronde lo ricorda continuamente – allo stesso modo la purezza delle azioni di Belmondo e Seberg li fa sembrare protagonisti di un documentario sulla loro vita. Godard amava l’espediente di registrare azioni e situazioni a una velocità non riscontrabile nel cinema narrativo. La regia di Fino all’ultimo respiro si rifà quindi a quella del documentario, filmando presenze reali in un tempo reale.

La macchina da presa si allontana dalle regole del cinema classico e dalla conseguente illusione di realtà, sottolineando la sua presenza. Allo stesso tempo però, Godard non rifiuta il linguaggio classico, ma lo ripensa e reinterpreta attraverso una messa in scena che giustappone tecniche tradizionali (come la chiusura ad iride) ad inquadrature anomale, lunghi piani sequenza e complessi movimenti di macchina. Questa operazione rivoluzionaria non avvenne soltanto durante le riprese, ma soprattutto in fase di montaggio: trovandosi con una pellicola dalla durata eccessiva, Godard apportò numerosi tagli, conosciuti con il termine jump cut, per restituire dinamicità alle scene. Esaminando la sequenza in cui Michel e Patricia attraversano le vie parigine in automobile, notiamo come il dialogo tra i due sia improvvisamente interrotto da tagli che spezzano la continuità di discorso e azione.

Godard conosceva dettagliatamente il cinema classico grazie alla sua formazione come critico ai Cahiers du Cinéma, dove, attraverso le sue appassionate recensioni, elogiava registi come Nicholas Ray, Samuel Fuller e Howard Hawks. L’ammirazione di Godard per questo tipo di cinema è rintracciabile nei continui rimandi alla figura di Humphrey Bogart in Fino all’ultimo respiro. Se Patricia è identificata principalmente attraverso l’arte e la letteratura, Michel è affascinato dal cinema e in particolar modo da un certo tipo di personaggio a cui dà volto Bogart; lo imita nel vestire, negli atteggiamenti (il pollice sulle labbra) e, in una celebre immagine, la mdp arriva a stabilire un ideale dialogo tra i due. Il cinema compare nel testo filmico tramite allusioni, come quella per mezzo di una scritta (Vivre dangéreseument jusq’au but) dal poster di Dieci secondi col diavolo di Robert Aldrich e omaggi espliciti, come la reinterpretazione di una scena da Quaranta pistole di Samuel Fuller nella sequenza dell’hotel de Suède. Queste continue citazioni dimostrano come Godard non abbia mai abbandonato il ruolo di critico: i suoi film potrebbero essere letti come saggi critici in cui la storia del cinema diventa la base da cui partire per raggiungere l’innovazione.

C’è una decisa assonanza tra la frenesia di Fino all’ultimo respiro e la musica jazz, non soltanto perché questa fa da colonna sonora al film, ma per la sperimentazione che accomuna Godard agli esponenti del Bebop. Se Dizzy Gillespie aveva dichiarato che per il jazz esisteva un’unica direzione, ovvero quella di andare avanti, Godard condivideva la stessa idea riguardo il cinema. Nello stesso modo in cui i musicisti Bebop avevano reagito alle limitazioni dello swing attraverso uno stile più complesso, improvvisato e spesso dissonante (qui il rimando ai raccordi sbagliati di Fino all’ultimo respiro), Godard dimostrò come da una storia di impianto classico fosse possibile creare qualcosa di fortemente originale, capace di abbattere i limiti incontrati fino ad allora nell’esplorazione cinematografica. LeRoy Jones vedeva nel Bebop “un nuovo linguaggio e una nuova visione”, parole che potrebbero essere impiegate anche nel descrivere il debutto di Godard.

Un ulteriore aspetto che sancisce la novità di Fino all’ultimo respiro è il ruolo riservato a Parigi all’interno della narrazione; come nei romanzi modernisti di James Joyce e Virginia Woolf, la città non è soltanto mero background, ma diventa essenziale al dispiegarsi dell’azione, assumendo quasi la stessa rilevanza dei personaggi. Nella pellicola godardiana questa prende vita, con le luci dei cafè, le passeggiate nei boulevard, e il traffico incessante, che diventano riflesso della perpetua mobilità nell’esistenza contemporanea. Attraverso le immagini girate nei luoghi simbolo di Parigi, Godard rafforza l’idea che Michel stia cercando la propria ragione d’essere in un ambiente moderno e dinamico. Il personaggio ambisce a stabilire una propria autonomia, ricerca una forma di libertà all’interno di una società sempre più ripetitiva e inautentica. Michel non incontrerà però una soluzione, scegliendo di affrontare con drammaticità la crescente insofferenza verso il mal de vivre.

 

“Anche se all’inizio ne ero imbarazzato, Fino all’ultimo respiro mi piace. Solo che pensavo fosse Scarface, mentre rivedendolo mi sono accorto che è Alice nel paese delle meraviglie” commenterà Godard qualche anno più tardi. Nel corso di una carriera che toccherà i soggetti più disparati, dalla guerra in Algeria ai Rolling Stones, Godard si manterrà vicino al linguaggio libero di Lewis Carroll, continuando ad allontanarsi con decisione dai dogmi dello stile hollywoodiano.