Sin dai primi istanti ordinato e divampante a un tempo, l’inizio di Ritorno a Seoul consiste in una serie di primi piani particolarissimi. Somiglia a una pagina bianca di continuo cancellata. Prima, esiste la musica, che esige la bellezza e l’incanto dell’onestà, conferendo così nell’ascoltatrice (Tena) un’espressione pensosa e concentrata, quasi severa. Come se l’influenza delle note rendessero la respirazione un esercizio, per assorbire tutta la quantità di spazio puro e restituire le particelle sospese di aria contaminata.

Dopodiché, l’irruzione: ecco un’ospite. Tant’improvviso l’arrivo di quest’ultima, quanto fulmineo il mutamento d’animo nella giovane Tena. Il suo sguardo così cauto, già fascinoso, è subito felice di incrociare quello deciso, consapevole della ragazza misteriosa. Spogliata la parola di qualsiasi ombra, dal coreano si passa all’inglese. E dall’inglese si passa al francese. Il suo nome è Freddie, Frédérique Benoît all’anagrafe. Senza accennare a un movimento, Freddie accarezza Tena con una domanda, come se i suoi occhi, ora mansueti, ora sfrontati, nel percorrere le sue guance, sprizzanti complicità, passassero su generazioni e generazioni. “Posso ascoltarla?” Pur ignorando il testo della canzone, conserva la fierezza titanica della divinità in grado di trasformare la minuscola pallina in un pianeta che segua le leggi dei suoi capricci. Impossibile non dedicarle tutta la propria attenzione. Le due diventano amiche, dissolta ogni barriera linguistica in un sorriso affamato di desiderio.

Inserito nella rosa dei migliori quindici film internazionali, ma non presente nella cinquina finale agli ultimi Premi Oscar, Ritorno a Seoul, secondo lungometraggio del cambogiano Davy Chou ispirato alla reale esperienza dell’amica Laure Badufle, è la storia di Freddie. Del suo viaggio in Corea del Sud, intrapreso nel tentativo di trovare i genitori biologici, i quali l’avevano abbandonata alla nascita, prima di venir affidata a una coppia di francesi. Della ribellione inflessibile alle abitudini mai condivise coltivate dal popolo che non l’ha voluta. Del rifiuto della sofferenza e di un padre contemplato di rado, come se gli occhi di lei si accendessero di un lampo malvagio, indifferente al suo passato brulicante di demoni non sopiti, inutilmente respinti. Osservato con grande impazienza, nella sua vulnerabilità, una volta silente. Qualcosa di difficile decifrazione, come se fosse un ostacolo. La storia, danzando fuori da ogni centro, di una ricerca della libertà.

Perché, in ogni ribellione, c’è sofferenza. In tal senso potrebbe esser d’aiuto una sentenza, in voga tra i latini – Lucrezio, Ovidio e Seneca –, ma non solo – Giordano Bruno l’ampliò in una sua commedia. Di recente, riscoperta da Marco Bellocchio, declamata dallo struggente Aldo Moro (Fabrizio Gifuni) in Esterno Notte a uno smarrito, eppur concorde Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi). Gutta cavat lapidem, la goccia perfora la pietra. Da una parte, un proverbio rassicurante, poiché con la pazienza possono raggiungersi risultati altrimenti impensabili. Dall’altra, l’esatto opposto: un’allusione alle azioni considerate, di norma, banali che, quando ripetute, arrecano danni incalcolabili a distanza di tempo.

Riprendendo questo adagio, Ritorno a Seoul si dimostra un film convincente, costruito intorno al senso d’insicurezza covato dalla protagonista, scritta e diretta con una calcolata riflessione, posizionata in un luogo in cui tutti gli edifici e significati si accumulano, equivalendosi e confondendosi. Da un lato, il pensiero del bisogno, penetrato nel midollo, di un incontro con la madre, la cui eco, nella sua monotona uniforme, avanza, non con la forza, bensì con il suo continuo stillicidio. Più forte di ogni intraducibile equivoco nato dall’utilizzo di Google Traduttore, più irrefutabile della non trasmissibilità di un messaggio a un indirizzo mail non trascritto correttamente. Una maschera disinibita, ispirata alla lettura a prima vista nella musica – la contemporanea lettura ed esecuzione di un brano mai ascoltato prima –, dall’altra.

Il profondo legame con suddetta imprevedibilità è il motore dei comportamenti di Freddie, guidati da una sinfonia interiore difficile da risolvere nel semplicistico quadrato scolastico della “civiltà”, retta da convenevoli e consuetudini. I rituali tanto vituperati dai fratelli Minoru e Isamu in Buon giorno di Yasujiro Ozu (1959). In tre scene, in particolare, possiamo notare il ritmo e la forma di questa lettura, una marcia dall’apparente lirismo incontenibile. Nel primo, in apertura, un malcelato disinteresse nei confronti di un programma televisivo dal titolo ambivalente, teso a sottolineare ora il desiderio di rivedere una persona ritenuta persa definitivamente, ora il dolore provocato dalla sua assenza, innesca un guizzo. Lo sguardo di Freddie, ancora ardito e imperscrutabile, passa rapidamente dagli amici Tena e Dongwan a un gruppo di sconosciuti con i quali instaurare un’amicizia fugace, sopprimendo tempestivamente ogni subbuglio e sentimento.

Nel secondo, estraniandosi nuovamente dalla fida Tena e rifiutando con un’oscura indelicatezza la dichiarazione d’amore di un amico irrimediabilmente innamorato, balla da sola, inaugurando un’irrequietudine miope, ferendo ogni elemento, benché invisibile, che ne possa minacciare l’indipendenza, benché illusoria. Lo stesso testo della canzone, richiesta al deejay, comunica la contraddizione tra il principale obiettivo di Freddie e la reale plausibilità del progetto. L’insindacabile “I never needed anybody” (“Non ho mai avuto bisogno di nessuno”), poco dopo verrà affiancato da un altrettanto inappuntabile “You can’t make it alone” (“Non puoi farcela da sola”).

Mentre, come dei furfanti senza patria, vagano le emozioni: il desiderio in Tena; una stridente gelosia nell’uomo, non appena vede Freddie chiacchierare con il deejay. Solo durante il finale della pellicola, una volta cancellate con uno schiocco di dita diverse persone prima parte della sua vita, nella sua altera nudità, Freddie potrà diventare tutte le persone che non potrà mai essere. Il petto quasi inondato di una linfa priva di scopo, si avvicina a un pianoforte. Sarà una pressione esercitata sullo strumento a puntellarne ancora il cuore. Il muscolo involontario diabolicamente incapace di offrire la tangibile soluzione all’incomunicabilità del proprio tormento, chiedendo solo di accettare la vita così com’è. Un letto, con le lenzuola ondulate a causa delle rotazioni del corpo.

Non perfetta, ma migliore del nulla.