Il 31 ottobre di trent’anni fa appresi da un telegiornale di seconda serata che, oltre alla morte di Federico Fellini, la cui notizia era già circolata nel corso della giornata, il mondo del cinema piangeva la scomparsa improvvisa di un giovane attore americano, River Phoenix. Fu letteralmente uno shock. Io avevo diciotto anni e River, il mio attore preferito, ventitré. Sentendo che il servizio attribuiva il decesso a un’overdose, esclamai, tra le lacrime, rivolta a mia madre: “Ma River non si drogava!”.

Buffo ricordare oggi quell’ingenuità. Aderivo, semplicemente, all’immagine costruita dai media (eravamo nell’era pre-Internet) di un giovane antidivo lontano dagli eccessi e dagli abusi dello star system. L’alterità rispetto al sistema è stata infatti uno dei tratti distintivi della figura divistica di River Phoenix. A partire dalla storia familiare, con i genitori hippie, per alcuni anni missionari in Sudamerica dei Bambini di Dio (contestato movimento religioso, in seguito indagato per abusi sui minori), che avevano dato ai figli nomi ‘esotici’ come River (dal ‘fiume della vita’ del Siddharta di Hermann Hesse), Summer, Rain, Liberty – con la sola eccezione di Joaquin, che però in quegli anni si faceva chiamare Leaf –, una vita nomade e una formazione alternativa.

Un anticonformismo che sembrava riverberare nell’immagine pubblica di River, in particolare nell’impegno e nell’attivismo ambientale e animalista: vegano da quando era bambino, non indossava capi di origine animale ed era testimonial della PETA (People for Ethical Treatment of Animals). Caratteri green che diventeranno dominanti nello stardom dei decenni successivi ma che a fine anni Ottanta costituiscono ancora un elemento eccentrico tra le giovani star di Hollywood. Sulle priorità, poi, l’attore non ha dubbi: come titola un articolo del “New York Times” del 1989, River Phoenix Ranks Acting Below Animal Rights and Music: se avesse dovuto scegliere tra la cerimonia del National Board of Review, che l’aveva premiato come attore non protagonista per Vivere in fuga di Sydney Lumet, e il concerto contro l’uso delle pellicce a cui aveva già aderito avrebbe dato la precedenza a quest’ultimo.

Si aggiunga a questo un look a metà strada tra il trasandato e l’intellettuale. D’altronde sono gli anni del grunge e i biondi capelli scombinati di River ricordano non a caso quelli di Kurt Cobain. I due non si conoscono direttamente, anche se River, chitarrista oltre che attore, ha diverse amicizie nella scena musicale dell’epoca, ma Cobain gli dedica in memoria Jesus Doesn’t Want Me for a Sunbeam durante un concerto a fine dicembre 1993. Nell’aprile dell’anno successivo, Cobain si toglie la vita.

Due giovani star all’apice del successo, due simboli della generazione X, scompaiono nel giro di pochi mesi. “Le loro morti furono così ravvicinate l’una all’altra che si ebbe la sensazione che in qualche modo fossero connesse. Entrambi patirono enormi pressioni per tutta l’incredibile impalcatura che venne costruita loro attorno […]. Erano così importanti per così tanta gente che si sentivano più vecchi della loro età. E con tutta quella pressione, entrambi sentivano il bisogno di lasciar uscire il vapore, e scatenarsi a ogni occasione. Ma il peso delle loro responsabilità non li proteggeva da tutti quegli eccessi. E ne morirono”.

Così Gus Van Sant descrive nel romanzo Pink i personaggi di Blake e Felix, dietro ai quali si riconoscono Cobain e Phoenix – il “giovane e talentuoso” Felix Arroyo, che aveva lanciato “l’idea di comprare l’Amazzonia per impedire alle compagnie di legname di abbattere l’ultima grande foresta della terra”, morto a causa di “una crisi allergica per una commistione di droghe psicoattive e psicotrope” “sul marciapiede di fronte al nightclub Thundermountain” (Phoenix morì sul marciapiede di fronte al Viper Room, locale all’epoca di proprietà di Johnny Depp).

Con River Phoenix non se ne andava solo quello che oggi definiremmo un teen idol, ma uno degli attori più promettenti e sensibili di un’intera generazione. Dopo le prime esperienze tra spot e nella serie televisiva Sette spose per sette fratelli, debutta sul grande schermo nel 1985 con Explorers di Joe Dante, accanto a un altro esordiente coetaneo, Ethan Hawke. La sua seconda interpretazione, l’anno successivo, in Stand By Me di Rob Reiner, conferma subito le sue doti eccezionali.

Nella sua breve carriera non ci sono forse grandi capolavori, ma collaborazioni eccellenti con registi del calibro di Peter Weir, Steven Spielberg, Lawrence Kasdan, Peter Bogdanovich, Van Sant, e attori come Sydney Poiter, Robert Redford, Harrison Ford. È quest’ultimo, dopo aver recitato con River in Mosquito Coast di Weir, che lo segnala a Spielberg per interpretare il giovane Indiana Jones nel flashback che apre Indiana Jones e l’ultima crociata.

Tutti concordano sul suo talento, sulla ‘verità’ interpretativa di un giovane senza una vera formazione attoriale, con lusinghieri paragoni con grandi interpreti. “È qualcosa che va al di là delle capacità di recitazione. Laurence Olivier non ha mai avuto quello che aveva River”, ha affermato Weir. Lumet, che lo ha diretto nel film, Vivere in fuga, per il quale ha ottenuto una candidatura agli Oscar a soli diciotto anni, ha parlato di un talento e di una personalità “autentiche”: “River non sa fare nulla di falso. Henry Fonda aveva quel barometro innato della verità”.

Anche i colleghi della sua stessa epoca lo ricordano tributandogli onori: “Sono cresciuto venerando River Phoenix come il grande attore della mia generazione”, ha raccontato Leonardo DiCaprio in un’intervista del 2019, “tutto ciò che ho sempre desiderato è stato avere l’opportunità di stringergli la mano”: ma quando l’occasione gli si presenta, a una festa, qualcosa nel volto di River lo blocca, e poi lo perde di vista: scoprirà che se n’è andato, diretto al Viper Room.

Sicuramente, dei pochi ruoli che River Phoenix ha potuto interpretare per il grande schermo in meno di dieci anni, il più toccante, quello in cui ha rivelato appieno la sua intensità e la sua sensibilità è il Mike Waters di Belli e dannati, il giovane tossicodipendente narcolettico che si guadagna da vivere prostituendosi. Sarà per le risonanze con quella che sarà la sua tragica fine, ma River non è mai stato così poetico e disperato, così fragile e struggente, così malinconico e vero come sulle strade americane di Van Sant.